lunedì 2 dicembre 2013

Quel dialogo senza parole

Ogni volta che cerco di parlare del silenzio mi trovo inadeguata; mi accorgo che lo descrivo in modo sempre un po’ diverso, come cercando di avvicinarmi a esso per approssimazione, volendo esprimere attraverso nuove immagini altre sfumature di questa realtà indicibile, eppure eloquentissima. Non si riesce a “dire” il silenzio se non vivendolo, facendone l’esperienza interiore. Del silenzio bisognerebbe, dunque, parlare tacendo.
C’è in proposito un significativo detto dei Padri del deserto, quegli antichi monaci che, vivendo davvero il silenzio, lo irradiavano attorno a sé: «Tre padri avevano costume di andare ogni anno dal beato Antonio; due di loro lo interrogavano sui pensieri e sulla salvezza dell’anima; il terzo invece sempre taceva e non chiedeva nulla. Dopo lungo tempo, il padre Antonio gli disse: “È tanto tempo ormai che vieni qui e non mi chiedi nulla”. Gli rispose: “A me, padre, basta il solo vederti”» (n. 27; in Patrologia Graeca 65,84).
Ed è vero: c’è un modo di accostare gli altri, di accoglierli con lo sguardo, con il sorriso, con il cuore, che comunica molto più del discorso vocale. Tuttavia, è vero che nell’esistenza ordinaria anche il discorso sul silenzio ha una sua importanza. Esso, in certo modo, prepara la strada per arrivare a quel punto di pace e di grazia che è l’autentico silenzio interiore. Infatti per l’uomo ferito dal peccato, in balìa delle sue passioni e per di più immerso in una società rumorosa come la nostra, il silenzio non è più il “naturale” respiro dell’anima: occorre conquistarlo o, meglio, lasciarsene conquistare; occorre avvicinarsi a esso come Mosè al roveto ardente (Es 3-4).
 
[Anna Maria Cànopi O.S.B., in Luoghi dell'Infinito, n. 178, novembre 2013]