martedì 27 novembre 2012

Salmodia e preghiera nella Regola di san Benedetto / prima parte

Parliamo di un argomento estremamente importante, centrale, per quanto riguarda la dottrina benedettina, e per quanto riguarda la Regola, per la preghiera e la salmodia.  L’ufficio divino, come si sa, ha un posto centrale nella Regola.  Studiandolo, si riesce a entrare a largo raggio all’interno della Regola in tutti i suoi aspetti: direi che è un modo di entrare per la porta principale nella dottrina benedettina.  Non perché le altre parti siano inferiori, ma perché nell’ufficio divino e nella preghiera così come San Benedetto la concepisce c’è in qualche modo l’essenza non solo dello spirito benedettino, ma di tutta la tradizione monastica.
La Regola di San Benedetto è un testo, un programma di vita monastica, che ha avuto una fortuna straordinaria non solo nella storia del monachesimo, nella storia della spiritualità e della religione,  della Chiesa, ma semplicemente nella storia stessa, nella storia dell’uomo.  Nella storia dell’uomo in relazione a Dio credo che nessun altro altrettanto breve testo religioso o spirituale abbia avuto più importanza nell’occidente. Dopo le Sacre Scritture, forse, niente è stato altrettanto importante per la spiritualità cristiana.  Tutta questa grande gloria e funzione spirituale, sociale religiosa non discende tanto da un colpo di genio che San Benedetto può aver avuto nello scrivere qualcosa di nuovo o originale.  Discende sicuramente dal fatto che è un testo ispirato da Dio.  Ma non si tratta di qualcosa di assolutamente nuovo che in qualche modo possiamo ascrivere al solo merito di San Benedetto.  Invece il suo grande pregio e autorevolezza, la sua natura di seme fertilissimo capace di fioriture inimmaginabili deriva dal fatto che è una felicissima sintesi di una cultura spirituale e un patrimonio di valori, di esperienze e di eredità monastiche che già hanno diversi secoli quando San Benedetto scrive.  Egli scrive una regola che avrà una fortuna storica e spirituale grandiosa, ma lo fa a partire da tre secoli di esperienza monastica e quasi sei secoli di esperienza cristiana.  È soltanto allora spiegabile, non nelle semplici circostanze del Lazio del VI secolo, quando il testo venne alla luce, l’importanza e il valore del testo.
Ogni passo della Regola benedettina ha una risonanza secolare che dobbiamo imparare a decifrare e a comprendere, riportandola e riconducendola alle sue fonti, alle fonti della letteratura monastica precedente, alle fonti evangeliche, alle fonti scritturali che stanno dietro.  San Benedetto indica all’inizio dei suoi capitoli gli argomenti ivi trattati e i passi scritturali ai quali si ispira e dai quali discende la sua dottrina su ciascun tema, e quindi il passo scritturale sul quale noi tutti, religiosi e laici, dobbiamo ispirare la nostra condotta dal momento in cui ci allineiamo alla Regola, tenendo conto che discende dalla Parola di Dio.  Per esempio, nel Capitolo 7,  importantissimo, sull’umiltà, San Benedetto dice: “Chi si umilia sarà esaltato” (Lc 14, 11).  E così quasi sempre, per il silenzio, per l’obbedienza, per tutto ciò che riguarda ogni aspetto della vita monastica, San Benedetto cita sempre la fonte.
Per quanto riguarda quella successione di capitoli che compongono la normativa che regola l’ufficio divino, Benedetto si rifà a due versetti di un salmo importante e lunghissimo, il 118, che dice “Sette volte al giorno ti lodo” (Sal 118, 164).  L’altro versetto citato da San Benedetto è “Nel mezzo della notte io mi alzo per renderti lode” (Sal 118, 62).  Questi due versetti vengono presi per inquadrare tutte quante le ore della preghiera nella giornata monastica, e poi anche la preghiera notturna. Il numero sette offerto da San Benedetto in questo contesto fa sì che le ore della preghiera così articolate siano sacre. Tale ci appaiono nel Capitolo 16, che brevemente illustra questo elemento.
Tuttavia, questo non esaurisce il senso dell’ufficio divino, perché i monaci preghino quelle ore particolari durante la giornata.  C’è un significato ulteriore che San Benedetto non cita esplicitamente, ma che possiamo ricavare, basandoci sulla fonte più diretta di San Benedetto, la Regola del Maestro, una regola anonima, scritta circa una trentina di anni prima di quella di San Benedetto, sempre nell’Italia centrale, e che costituisce la fonte più vicina nel tempo.  Ci sono poi infinite altre che risalgono nel tempo.  Leggendo questi testi riusciamo anche a completare il significato di ciò che San Benedetto ci illustra, e in questo caso riusciamo a capire attraverso il Maestro e gli autori che lo hanno preceduto qual è il senso interiore dell’ufficio divino.  E questo senso, che già era presente nella coscienza e nell’uso dei paleocristiani, era un invito di Cristo che è riportato dal vangelo di Luca specialmente, e poi da Paolo molte volte nelle sue lettere, e suona così: i discepoli chiedono a Cristo in che modo debbano pregare, e Cristo risponde: “Pregate incessantemente” (Lc 18, 1; 21, 36).  Questo “pregate incessantemente” è il senso dell’ufficio divino in San Benedetto, ma anche nella tradizione monastica antica.  Certo, non è un invito semplice, è molto enigmatico e anche difficile da vivere, per cui fin dai primi tempi del cristianesimo, quando si era costituito in forma di pensiero, nella patristica e anche al livello di esperienza delle prime comunità cristiane, gli autori antichi spirituali cristiani hanno cercato di dare a questo invito una soluzione: in che modo pregare incessantemente.  Se ne occupano specialmente Tertulliano, Cipriano e Origene  nei loro trattati sull’orazione.  Tertulliano se ne occupa in maniera più direttamente espressa nel suo De oratione, nei Capitoli 24-26.
Ora, i cristiani fin dall’inizio, siano i monaci che i laici, hanno tenuto ben presente che questo invito di Cristo è difatti l’unico precetto che egli ha dato in materia di preghiera, al di là del Padre nostro, che ha insegnato espressamente, e che è una formula già stabilita.  Ma sul come pregare, nel senso più vasto e esteso, questo è l’unica indicazione che Cristo ha dato.  Quando è nato il movimento monastico, lo sforzo di pregare incessantemente è stato tradotto in una tradizione che ha fissato momenti determinati.  Data l’umana debolezza, è impossibile praticamente tenere costantemente la nostra attenzione rivolta verso Dio, quindi sempre in un atteggiamento di preghiera, si sono fissate delle “Ore” quando questo nostro dovere viene richiamato all’ordine, in maniera più forte e obbligata, e la successione di queste “Ore” crea in qualche modo un senso di continuità, di una preghiera incessante.  Naturalmente, rispetto all’ideale alto di pregare sempre, questi momenti sono come dei punti su una linea infinita, e non offrono una perfetta continuità, e vengono disprezzati da alcuni autori, come per esempio Clemente Alessandrino, perché dal suo punto di vista, l’uomo che veramente ama e vuole raggiungere la perfezione deve pregare sempre e ovunque, e non distogliere mai la propria attenzione da Dio.
Questo è ovviamente una questione di una grande altezza utopica non facilmente realizzabile, ma tuttavia non vuole dire che la preghiera incessante non sia sempre sentita con grandissima forza, come una grande sfida alla debolezza umana e quindi qualcosa che deve suscitare l’eroismo nel monaco. Quando si era conclusa la stagione dei martiri e delle cruente persecuzioni, è nato il movimento monastico, i cristiani più ferventi hanno interpretato questo passaggio di epoca come una grande possibilità della preghiera incessante.  La nuova pace religiosa è stata inaugurata da Costantino e l’era dei deserti si è aperta, la stagione dell’anacoresi e del cenobitismo nei deserti, e finalmente la preghiera incessante poteva essere coltivata con più continuità e dedizione.  Di questo parla specialmente un autore affascinante, Giovanni Cassiano, che, a mio avviso, dovrebbe godere di un apprezzamento maggiore di quello che fino ad oggi ha avuto; è uno dei maggiori autori spirituali nella storia monastica, soprattutto perché ha viaggiato lungamente e sperimentato la vita tra i monaci orientali ai primordi, tra il secolo IV e V, e nelle sue Istituzioni cenobitiche racconta di questi monaci ferventi, che si radunano al mattino e alla sera per pregare, ma trascorrono tutta la giornata senza uffici.  Non perché non preghino, ma al contrario, perché pregano di continuo interiormente; hanno un fervore talmente alto, talmente perfetto da poter veramente dedicare tutto il loro tempo a Dio, senza distrazione.  E Giovanni Cassiano ci descrive questi eroici gloriosi padri, che gli rappresentano dei grandi modelli da seguire, o perlomeno da tener presente, anche in circostanze diverse, come ne scrive nelle Istituzioni, Capitolo III, paragrafo 2.
 
[Da una conferenza del 13 novembre 2000 della dr.ssa Mariella Carpinello; testo tratto dal sito Internet della Conferenza Italiana Monastica Benedettine (CIMB) www.benedettineitaliane.org / 1 - continua]

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