lunedì 9 luglio 2012

San Benedetto e la città armoniosa / prima parte


Mikalojus Konstantinas Čiurlionis (1875-1911), Rex, 1909
Ogni anno celebriamo due volte la festa del nostro glorioso patriarca. Il 21 marzo, giorno della sua preziosa morte, ci piace evocare qualche tratto della sua fisionomia conservato dal suo primo biografo, san Gregorio Magno, Papa benedettino del secolo VI. La seconda festa, che chiamiamo “San Benedetto d’estate”, cade l’11 luglio. In tale ricorrenza abbiamo a cuore non solo d’esaltare le virtù dell’eremita di Subiaco e del patriarca dei monaci, ma anche di mettere in luce il genio di colui che la Chiesa considera come il Padre dell’Europa e l’ispiratore della civiltà occidentale, al quale Cassiodoro ha conferito il titolo di “fundator placidae quietis”, fondatore del tranquillo riposo, maestro della pace interiore. Ecco quel che è stato san Benedetto al dire dei suoi contemporanei. Dobbiamo collocare questa espressione nel contesto della società antica, così fortemente marcato da un carattere sociale, familiare e comunitario, a tal punto che essa potrebbe essere felicemente tradotta con “fondatore della città armoniosa”.
Il sogno di una città armoniosa non ha mai cessato di fecondare l’immaginazione degli antichi. Reminiscenza di ciò che fu o intuizione di quel che sarà? Un’età dell’oro appare profeticamente in quasi tutti i racconti mitologici. In Virgilio troviamo una misteriosa profezia:
Già la novella prole discende dall’alto del cielo […] il bambino nascituro con cui cesserà l’età del ferro e in tutto il mondo sorgerà quella dell’oro […] se resta traccia dei nostri delitti […] e reggerà il mondo pacato dalle virtù del padre”.
Nell’opera di Platone, presso il quale l’idea fiorente in immagine dà nascita al mito, esiste una mirabile descrizione della città armoniosa. La si trova nel Crizia ed è l’evocazione di Atlantide, quella favolosa città inghiottita nel fondo del mare, simbolo della felicità umana scomparsa per una misteriosa fatalità. Dando libero corso alla sua ispirazione, il filosofo descrive, in una specie di Paradiso perduto, i costumi politici di una società ideale. Ognuno dei dieci re che presiede al destino delle proprie città esercita fra di essi mutuamente la funzione di giudice, ciascuno giudicando l’altro in uno sforzo estremo di giustizia.
Quando scendevano le tenebre e il fuoco dei sacrifici si era consumato, indossavano tutti una veste azzurra, bella quant’altre mai, sedendo in terra, accanto alle ceneri dei sacrifici per il giuramento. Di notte, quando ormai il fuoco intorno al tempio era completamente spento, venivano giudicati e giudicavano se uno di loro avesse accusato un altro di violare qualche legge; dopo aver formulato il giudizio, all’apparire del giorno, incidevano la sentenza su una tavola d’oro che dedicavano in ricordo insieme alle vesti”.
Può essere che il torto di Platone sia di avere concepito il fondamento e le leggi della sua Repubblica per uomini perfetti, o almeno in procinto di diventarlo; la società civile, così alta sia l’idea che se ne può avere, non è assimilabile a un monastero, e le sue leggi non possono impunemente mutare in regole monastiche. La città terrestre, al contrario, reclama più spesso leggi e punizioni rigorose per proteggere i cittadini e per impedire ai disonesti di prevalere.
In compenso, può essere che appartenga alla sapiente istituzione benedettina, per quanto essa sia interamente orientata al Cielo, di concedere alla terra il segreto della sua armonia e di rilanciare l’intuizione profetica del filosofo greco, di cui il poeta Charles Péguy ha sottolineato il ruolo provvidenziale:
I sogni di Platone si erano fatti strada per Lui.
Per Lui solo canta il gigantesco Eschilo.
I canti si sono però taciuti e i sogni si sono estinti. La fiaccola della civiltà passò allora rapidamente in mani latine. Coincidenza significativa: nel 529 l’imperatore Giustiniano chiude la scuola d’Atene e nello stesso anno san Benedetto fonda a Montecassino il primo monastero d’Occidente. La scuola d’Atene era stata fondata dagli iniziatori dell’ellenismo, da uomini interamente kaloskagathòs, un programma – lo sapete – in cui si congiunge la bontà dell’essere all’eleganza del suo dispiegamento.
Il monastero benedettino, definito da san Benedetto una scuola del servizio del Signore e da san Bernardo come una scuola d’amore (schola amoris), completamente indirizzato verso un sapere più alto mediante la preghiera, la carità, la bellezza del culto e un’ardente ricerca di Dio, senza cessare di essere un arco teso verso il Cielo, rileverà da una retorica morente per diventare – come ha detto un antico – un’accademia della pace, di silenzio e di libertà. Come? Essenzialmente per il rispetto delle anime, la carità fraterna, l’assopimento delle passioni; la casta tinta di una preghiera sacramentale che si accorda alla bellezza del giorno; insegnando ai barbari quant’è dolce il Signore e com’è dolce vivere tra fratelli nell’amicizia di Dio.
Un fedele abituato a soggiornare nei nostri chiostri, rileggendo la Regola di san Benedetto, vi ha scoperto per i moderni una carta, un’arte di vivere assieme, un’arte di stabilire l’uomo nella pace. Così dice: “Lo spirito benedettino è apparentato a quello di Virgilio, è la misura dei Greci, l’atarassia degli stoici; è la fede di Abramo e di Mosè penetrata di senso umano; è l’affettuosa intimità; è soprattutto la bellezza di tutte le ore del giorno, come se ciascuna fosse una piccola eternità” (Jean Guitton).
A cosa dobbiamo attribuire il successo di questa invasione pacifica che ha colonizzato l’Europa del Medioevo e ha modellato lo spirito civilizzatore medievale? Non cadiamo nell’errore tipicamente moderno di cercare il segreto di una riuscita soprannaturale nella congiunzione di avvenimenti di ordine psicologico o sociale. Il segreto dei benedettini è tutto intero nella Regola e il segreto della Regola è nell’anima del nostro santo patriarca; è la che occorre cercare. Vi è che l’anima del Nostro Santo Padre Benedetto era quella di un mistico, di un conoscitore d’uomini e di un padre.

[Dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), La cité harmonieuse, 25 luglio 1987, in Benedictus. Tome III. Lettres aux oblats, Éditions Sainte-Madeleine, Le Barroux 2011, pp. 31-42 (qui pp. 31-35), trad. it. di fr. Romualdo Obl.S.B. / 1 - continua]

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