martedì 25 ottobre 2011

Intervista a Dom Louis-Marie, abate di Le Barroux (seconda parte)

[Grazie alla cortese autorizzazione di Christophe Geffroy, direttore del mensile La Nef e autore dell’articolo, riproduciamo in trad. it. a nostra cura l’intervista al Padre Abate dell’abbazia Sainte-Madeleine di Le Barroux, Dom Louis-Marie Geyer d’Orth O.S.B., Un monastère pour le XXIe siècle, comparsa in La Nef, n. 230, ottobre 2011, pp. 18-21 (qui pp. 20-21) / 2 - fine (la prima parte qui)]

Costruire un monastero mentre non si parla d’altro che di costruzione di moschee, non è forse un segno di “resistenza”, il simbolo che il cristianesimo non è morto nel nostro Paese?
È vero che ogni monastero ha la vocazione di essere una cittadella spirituale. La resistenza monastica a quello che lo stesso Padre de Chergé [Dom Christian de Chergé O.C.S.O. (1937-1996), priore del monastero trappista algerino Notre-Dame de l’Atlas di Thibirine] chiamava “l’invasione dell’islam”, non può essere che pacifica e indiretta. Se l’islam assume una tale importanza nell’Occidente cristiano, è perché quest’ultimo ha apostatato dalla sua fede e ha amputato le sue radici cristiane. La mentalità razionalista e anti-cristiana della cultura e delle politiche occidentali li rende assolutamente sprovveduti di fronte a questa grande “onda verde”. Il sindaco di una grande città francese – ancora situata in territorio concordatario – ha bene riassunto quest’attitudine incoerente, dichiarando d’imporre nelle mense, come segno d'apertura, delle pietanze halal [“lecito”, cibo preparato in modo accettabile per la legge islamica], e di rifiutare il pesce di venerdì, per laicità. Ma il problema rimane politico e ci oltrepassa. Torneremo forse a studiare i fondamenti anti-cristiani dell’islam e tutti i pericoli che esso rappresenta per la libertà, al fine di chiarire gli uomini di buona volontà. È nostra responsabilità, più sicuramente, proclamare con forza e dolcezza la nostra fede cristiana e pregare, alimentare il grande fiume soprannaturale che percorre invisibilmente le pieghe della storia per offrire un avvenire di luce.

A proposito di “crisi” delle vocazioni, essa non è dovuta, molto semplicemente, alla diminuzione del numero di cattolici praticanti? La “soluzione” non è dunque nella nuova evangelizzazione, in particolare della famiglia?
Credo che per la nuova evangelizzazione sia opportuno seguire l’esempio del Santo Padre alla GMG. Egli si è anzitutto rivolto ai giovani religiosi, poi ai seminaristi, ancora agli universitari e infine ai giovani del mondo intero. Ogni rinnovamento della Chiesa inizia con la riforma del clero e dei religiosi. Il Santo Padre ha esortato i giovani religiosi alla radicalità nella fede, radicalità nell’adesione a Cristo, alla Chiesa e alla loro missione. È valido per i vescovi, i sacerdoti e i diaconi. Se si vogliono toccare le famiglie, occorre rinnovare il clero e i religiosi, ridare loro il senso della radicalità. D’altro canto, è pur vero che la ricostruzione della famiglia, se possibile numerosa, è essa stessa una priorità, sia per la società sia per il fiorire naturale delle vocazioni.

Un’abbazia come la vostra, la quale ha conservato le proprie esigenze, non illustra forse che tutte le “soluzioni” alla “crisi” che vanno nella direzione del mondo – matrimonio dei preti, ordinazione delle donne, legittimazione dell’omosessualità per il clero, ecc. – sono votate allo scacco, come dimostrano gli esempi anglicani e protestanti?
Davanti a una Chiesa ammalata, è grande la tentazione di disperare e di rassegnarsi alle cure palliative, quasi per aiutarla a morire senza sofferenze. Tutte le soluzioni mondane e alla moda sono paragonabili alla bevanda che i soldati hanno proposto a Gesù sulla croce affinché soffrisse meno. Ma Gesù l’ha rifiutata. Non vi è ricetta, ma abbiamo la vera medicina: la fede soprannaturale in Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, salvatore degli uomini, che ci ha aperto le porte del Cielo. La vitalità della Chiesa non è il prodotto d’industrie umane ma il frutto della grazia, ricevuta principalmente nei sacramenti, e la fedeltà alla Parola di Dio che ci è pervenuta attraverso il Magistero e la Tradizione.

Voi siete legati alla forma extraordinaria del Rito romano: perché questa scelta e come giudicate la situazione liturgica nella Chiesa latina, particolarmente dopo il motu proprio Summorum Pontificum e la recente pubblicazione dell’istruzione Universae Ecclesiae?
La scelta della forma extraordinaria del Rito romano risale alle nostre origini, a Bédoin, nel 1970. Questa scelta non è affettiva, ma è una preferenza motivata da ragioni di manifestazione più netta di talune verità della fede: carattere centrale, sacrificale e sacro, della messa, presenza reale del Signore nelle sante speci, distinzione essenziale del sacerdozio ministeriale del prete e del sacerdozio battesimale. Aggiungo che la forma extraordinaria manifesta altamente la continuità della Chiesa, perché la Chiesa non accetta né rotture né rivoluzioni, essa non muta il contenuto della propria fede. Per finire, l’orientamento ecumenico dato dal Concilio Vaticano II trova nella forma extraordinaria un ponte con le Chiese orientali e finanche con le comunità cristiane anglicane e luterane, dalle forme liturgiche ancora antiche. La situazione liturgica tende a evolvere nel buon senso. Lo vedo per esempio alla messa crismale del Giovedì santo alla chiesa metropolitana di Avignone. Ma occorre del tempo, perché come diceva Dom Gérard, basta una notte per bruciare una foresta, e cinquant’anni per farla ricrescere. In ogni caso, il Santo Padre ha sbloccato una situazione. La forma extraordinaria non è più considerata dai fedeli come abolita. Mi sembra che il fine attuale del Vaticano sia di diffondere la celebrazione di questa forma con tutto ciò che gli va appresso – catechismo, patronati, pellegrinaggi, ecc. – al fine, in un primo tempo, d’influenzare la celebrazione corretta della forma ordinaria. Siamo all’inizio dell’inizio. Dopo di che, Dio provvederà.

Le Barroux si è reso noto per la pubblicazione di studi importanti in accordo con la preoccupazione del Santo Padre di una corretta “ermeneutica della riforma, del rinnovamento nella continuità”. Per voi questo è importante, e come percepite i progetti di Benedetto XVI in materia?
Si tratta di un punto fondamentale. La Chiesa non ha il potere di darsi nuove costituzioni nel corso del tempo. Essa deve rimanere sé stessa, com’è stata fondata dal suo Maestro. Spetta ai pastori coltivare nella vigna del Signore lo spirito di fedeltà, di comunione con la Tradizione e i suoi sviluppi fondamentali, e quindi di presentare il Concilio Vaticano II non come una novità assoluta, ma come uno sviluppo organico o una riforma nella continuità. I pastori che si comportano diversamente dovranno renderne conto al Signore. Io non sono nei segreti del Santo Padre, ma constato che le sue allocuzioni illustrano bene l’urgenza di riprendere la nostra storia: da cinque anni, egli dedica le sue udienze generali a presentare i giganti della storia della Chiesa, partendo dagli apostoli, passando per san Benedetto, e per finire con santa Teresa del Bambino Gesù. Giunti a questo punto, ci parla dell’uomo di preghiera. Mi sembra che il suo progetto sia il radicamento, tema della GMG, radicamento nella nostra fede, nella nostra storia e nella preghiera. Era anche il progetto di Dom Gérard quando lanciò i lavori di Le Barroux: “Il sommo criterio, quello al quale desideriamo sacrificare tutto, non sarà l’emergenza, ma il radicamento”. Promette buoni frutti.

lunedì 24 ottobre 2011

Dom Adalbert de Vogüé O.S.B. (1924-2011)

Ci uniamo con sincero dolore e in spirito di preghiera alla comunità monastica dell’abbazia Sainte-Marie de la Pierre-qui-Vire, nell’annunciare la morte del loro illustre confratello Dom Adalbert de Vogüé O.S.B. (1924-2011).
Nato a Parigi il 2 dicembre 1924 in una famiglia dell’antica nobiltà francese, il giovane Adalbert entra nella vita monastica nel 1944, alla Pierre-qui-Vire. Ottenuto il dottorato in teologia nel 1959, si dedica all’insegnamento sui Padri della Chiesa e il monachesimo antico al Pontificio Ateneo S. Anselmo in Urbe e presso il suo monastero.
Dal 1974 conduce vita eremitica in prossimità della sua abbazia e si dedica a una somma sulla storia della vita monastica dalle origini, pubblicata dalle Éditions du Cerf, una vasta impresa d’erudizione senza equivalenti: solo la parte relativa agli inizi del monachesimo latino consta di dodici volumi.
Parimenti, Dom de Vogüé si distingue per uno studio approfondito della Regola di san Benedetto, le cui ricerche, tradotte in molte lingue, diventano un punto di riferimento imprescindibile e sin qui insuperato. Fra tali studi, in traduzione italiana, si veda il fondamentale La Regola di san Benedetto. Commento dottrinale e spirituale, comparso nella collana “Scritti monastici” dalle Edizioni Abbazia di Praglia nel 1984 e ristampato nel 1998; nella medesima collana, si veda pure del medesimo autore La comunità. Ordinamento e spiritualità, edito nel 1991. Ci piace qui inoltre ricordare la preziosa pubblicazione di due volumi di facile lettura e altrettanto solido impianto, pubblicati nella collana “Orizzonti monastici” dell’Abbazia San Benedetto di Seregno: Il monachesimo prima di san Benedetto (1998) e San Benedetto. L’uomo e l’opera (2001).
Negli ultimi anni della sua vita, Dom Adalbert de Vogüé aveva spesso sottolineato la particolare importanza che egli attribuiva a un suo libro “non specialistico”, dedicato alla pratica del digiuno nella vita monastica e cristiana, che ci piacerebbe vedere presto tradotto in Italia, magari a cura di qualche comunità monastica sensibile a un ricentramento di questa fondamentale norma ascetica, così importante sia per i consacrati sia per i laici: Aimer le jeûne. L’experience monastique, Cerf, Parigi 1988. Come pure, ci sia permesso ricordare un altro suo scritto non specialistico ma dal quale traspira come l’esperienza intellettuale del monaco non fosse disgiunta da una sua continua ruminazione sul fine ultimo della vita cristiana: Desiderio desideravi, trad. it., Monastero Santa Scolastica, Civitella San Paolo 1997.
I funerali di Dom Adalbert de Vogüé O.S.B. si svolgeranno mercoledì 26 ottobre, alle ore 11, presso l’abbazia Sainte-Marie de la Pierre-qui-Vire, dove egli ha vissuto per 67 anni.
Requiem aeternam dona ei, Domine, et lux perpetua luceat ei. Requiescat in pace. Amen.

mercoledì 19 ottobre 2011

Intervista a Dom Louis-Marie, abate di Le Barroux (prima parte)

[Grazie alla cortese autorizzazione di Christophe Geffroy, direttore del mensile La Nef e autore dell’articolo, riproduciamo in trad. it. a nostra cura l’intervista al Padre Abate dell’abbazia Sainte-Madeleine di Le Barroux, Dom Louis-Marie Geyer d’Orth O.S.B., Un monastère pour le XXIe siècle, comparsa in La Nef, n. 230, ottobre 2011, pp. 18-21 (qui pp. 18-19) / 1 - continua]


Dom Louis-Marie Geyer d'Orth O.S.B.,
Padre Abate di Le Barroux
Un monastero per il secolo XXI

In un tempo di crisi delle vocazioni, l’abbazia Sainte-Madeleine di Le Barroux fonda un nuovo monastero. Il Padre Abate ci parla della costruzione di Notre-Dame de la Garde e dell’attualità della vita benedettina tradizionale

Non è paradossale costruire un nuovo monastero, mentre così tante antiche abbazie sembrano vuote o abbandonate?
L’ideale per noi sarebbe stato di trovare un’abbazia già esistente. Per questa ragione, prima d’intraprendere i lavori, ho scritto a un vescovo per chiedergli se potevamo subentrare in un’abbazia che stava per essere completamente restaurata. Ma ciò non è stato possibile né auspicabile per la diocesi. Non si deve dimenticare che per fondare in una diocesi occorre assolutamente l’autorizzazione del vescovo. Una tale accoglienza, dopo una lunga ricerca e molteplici inconvenienti, l’abbiamo trovata presso da diocesi di Agen. Monsignor Jean-Charles Descubes credeva alla forza della preghiera dei contemplativi, anche se non adottava tutto ciò che costituisce il nostro proprio carisma. Quanto a riutilizzare un edificio storico, devo ricordare ai nostri generosi donatori che la restaurazione è assai più costosa di una costruzione.

Potete spiegarci il cantiere nel quale vi siete impegnati? Cosa intendete costruire, e di quali aiuti beneficiate?
La comunità della fondazione aveva assolutamente bisogno di pianificazione e, per non svolgere i lavori in maniera frammentaria, abbiamo scelto un architetto che ha impostato un piano d’insieme. Abbiamo iniziato con il costruire i laboratori definitivi, al fine di potere restaurare gli spazi comuni e il granaio che fino allo scorso giugno erano ancora utilizzati come laboratori provvisori. Ora ci lanciamo in un grande cantiere, il futuro ostello, distribuito su due edifici che saranno collegati da un “ponte”, e il cui tetto dev’essere interamente rifatto; tale ostello sarà composto da un piccolo refettorio, otto stanze, i bagni, una grande scalinata e un parlatorio. Per questa tappa abbiamo bisogno di 600.000 euro. Quanto all’aiuto di cui abbiamo sin qui beneficiato, esso proviene da una parte da qualche raro grande benefattore, e inoltre da una folla di donatori più modesti, ciascuno dei quali – mediante l’“obolo della vedova” così lodato da Gesù – ha aggiunto il suo piccolo ruscello per formare un fiume più abbondante: tutti partecipano secondo la loro misura, ed è questo che conta per Dio.

Per molti Le Barroux fa rima con Dom Gérard, il fondatore: come si manifesta al giorno d’oggi la sua presenza, e cosa ricordate di questa forte personalità?
Dom Gérard ci ha generati alla vita monastica. Gli dobbiamo la nostra tradizione, la nostra formazione, la nostra professione religiosa, alla quale ci ha accolti. Quando sono venuto al monastero, vent’anni fa, gli dissi che cercavo a Le Barroux lo spirito tradizionale e la fedeltà a Roma, ed egli mi rispose che vi era tutto questo. Vi sono poi le tre colonne: anzitutto la dottrina tradizionale, insegnata per mezzo della filosofia tomista; poi le osservanze monastiche, radicate nella pietà filiale verso i nostri fondatori, san Benedetto, Padre Jean-Baptiste Muard – fondatore della Pierre-qui-Vire –, Dom Romain Banquet e Madre Marie Cronier, creatori delle abbazie sorelle di En-Calcat e Dourgne; infine la liturgia celebrata nella forma straordinaria del Rito romano. Dom Gérard ci ha insegnato a custodire gelosamente il tesoro degli antichi, ma per viverne e non per conservarlo come in una camera stagna. Un nostro fratello ha detto che Dom Gérard si svegliava tutte le mattine nuovo come un bambino, ciò che gli ha permesso di passare attraverso molte prove. Questo potere di ringiovanire tutti i giorni, egli lo traeva dalla sua vita interiore, dalla sua grande fiducia nella Vergine Maria e dal suo solido legame con Nostro Signore Gesù Cristo. È sul basamento della sua vita interiore che si poggiava la sua battaglia per la cristianità.

La vostra abbazia recluta, al punto che siete stati obbligati ad aprire una fondazione, nel 2002; anche in questo caso siete controcorrente, perché ovunque si parla della “crisi” delle vocazioni: avete una “ricetta”?
No, nessuna ricetta. La ricetta è Dio, dunque non è una ricetta che si può fare uscire dal cassetto. La sola cosa che conta per noi è di essere fedeli alla nostra vocazione, di credervi, di amarla, di vivere nella pietà filiale. Questo detto, i giovani, è evidente, cercano la radicalità che il Santo Padre ha richiamato in occasione della GMG nel suo discorso ai religiosi. Hanno bisogno di strutture chiare e nette, e non di una ricerca indefinita d’identità in perpetua mutazione. Vogliono degli autentici maestri di preghiera e di vita. E poi noi abbiamo il carisma di Dom Gérard, che ha attratto molti giovani; e ancora – capite bene – i giovani attirano i giovani.

La vostra abbazia vive lo spirito della Congregazione Sublacense, in Francia rappresentata da Padre Muard, meno nota di quella di Solesmes, fondata da Dom Guéranger. Cosa vi distingue dalle altre obbedienze benedettine?
La mia risposta necessiterebbe alcune sfumature, ma grosso modo: Solesmes è stata fondata nel 1833 da Dom Guéranger, uomo di Dio, d’origine canonicale, coltivato negli studi, appassionato di liturgia. Credo si possa dire che la sua restaurazione benedettina avesse per fine il rinnovamento liturgico. La Pierre-qui-Vire è stata fondata nel 1850 da Padre Muard, un altro uomo di Dio, ma curato di parrocchia, poi missionario diocesano, d’orientamento più direttamente apostolico. Egli fondò il suo monastero affinché la testimonianza di una vita povera, umile e mortificata potesse dare qualche frutto di conversione mediante le missioni. Anche l’osservanza era più ascetica, poiché Padre Muard aveva svolto il suo noviziato all’abbazia trappista di Aiguebelle, la cui austerità peraltro inviava molti giovani monaci in Cielo. Sia come sia, En-Calcat, fondata nel 1890 dalla Pierre-qui-Vire, fu molto vicina a Solesmes, e i due rispettivi Abati, Dom Banquet e Dom Delatte, pensarono a un dato momento di unificarsi. Madre Cronier, fondatrice dell’abbazia Sainte-Scholastique di Dourgne, aveva svolto il proprio noviziato a Sainte-Cécile di Solesmes, e intratteneva una profonda amicizia spirituale con la Madre Abbadessa di Kergonan, figlia di Solesmes. Al giorno d’oggi le diverse branche si sono diversificate al punto che, quanto alla liturgia, all’orientamento dottrinale – particolarmente filosofico –, noi siamo ormai più vicini a Fontgombault e alle sue abbazie figlie – facenti parte della Congregazione di Solesmes – che non alla Pierre-qui-Vire.

I monasteri hanno svolto un ruolo essenziale nell’evangelizzazione dell’Europa. Nella nostra epoca di forte scristianizzazione, voi monaci non siete chiamati a svolgere un nuovo ruolo “civilizzatore”? Una tale missione è compatibile con la vita nel chiostro?
Se san Benedetto è diventato il patrono d’Europa con la croce, il libro e l’aratro – come ha detto Papa Paolo VI –, egli non l’ha fatto appositamente; occorre rileggere la conferenza di Benedetto XVI al Collège des Bernardins, nel quale spiega molto bene come i monaci abbiano influenzato la civiltà cristiana; costoro non avevano che un unico e nobilissimo fine: cercare Dio. E non a caso, ma sul sentiero sicuro della Parola di Dio, letta, meditata, studiata, contemplata, cantata, vissuta, incarnata, incorporata. Per riassumere, non mi rimane che citare Dom Gérard: «Prima di essere delle accademie di scienza e dei crocevia della civilizzazione, i monasteri sono stati delle dita silenzione puntate verso il cielo, il richiamo ostinato, non negoziabile, che esiste un altro mondo di verità e di bellezza, di cui l’attuale non è che l’immagine, che esso annuncia e prefigura».

[Per aiutare i lavori di costruzione del Monastero Sainte-Marie de la Garde (47270 Saint-Pierre-de-Clairac, Francia), di cui abbiamo parlato già in altre occasioni (in particolare si veda: qui e qui), si rimanda al sito Internet http://www.jeconstruisunmonastere.com/]

Il monastero Sainte-Marie de la Garde
(credito fotografico: "Haut Relief")

giovedì 13 ottobre 2011

Dedicatio Ecclesiæ Abbatialis

Oggi, 13 ottobre, presso l'abbazia Sainte-Madeleine di Le Barroux si festeggia la solennità della Dedicazione della chiesa abbaziale.
Ci uniamo di vero cuore alla gioia dei nostri monaci.
Ad multos annos !


mercoledì 12 ottobre 2011

Benedizione abbaziale di Dom Jean Pateau O.S.B.


Quest’estate abbiamo dato notizia delle dimissioni di Dom Antoine Forgeot O.S.B. dalla carica di Padre Abate dell’abbazia Notre-Dame di Fontgombault, facente parte della Congregazione di Solesmes. In seguito la comunità monastica, secondo l’insegnamento della Regola di san Benedetto, ha provveduto a eleggere – il 18 agosto 2011 – il nuovo Padre Abate, quarto nella storia di Fontgombault: alla carica è stato eletto Dom Jean Pateau O.S.B., sino a quel momento Priore della celebre abbazia; originario della Vandea, 45 anni, Dom Pateau ha ricevuto una formazione scientifica e prima di entrare nella vita monastica ha insegnato Fisica presso il Collège Stanislas di Parigi. Il 7 ottobre 2011, nella festività della Madonna del Rosario, Dom Pateau ha quindi ricevuto la benedizione abbaziale dalle mani di S.E. mons. Armand Maillard, arcivescovo di Bourges, diocesi nella quale si trova l’abbazia di Fontgombault. Alla solenne cerimonia hanno partecipato circa 1.200 fedeli, fra i quali molti prelati. Riproduciamo di seguito alcune fotografie che ritraggono il nuovo Padre Abate, la processione, la cerimonia, i prelati partecipanti, e infine il blasone prescelto da Dom Pateau, per il ministero del quale invitiamo tutti i lettori di Romualdica a unirsi in una fervida preghiera al Signore, senza dimenticare un rendimento di grazie per il compito sin qui svolto da Dom Forgeot.















[Le immagini sono tratte dai siti Internet: La Nouvelle République, Una Voce, Le Forum Catholique]

martedì 11 ottobre 2011

Abbandonare le realtà fuggevoli e cercare di afferrare l’eterno

“Fugitiva relinquere et aeterna captare”: abbandonare le realtà fuggevoli e cercare di afferrare l’eterno. In questa espressione della lettera che il vostro Fondatore [san Bruno di Colonia (1030-1101)] indirizzò al Prevosto di Reims, Rodolfo, è racchiuso il nucleo della vostra spiritualità (cfr. Lettera a Rodolfo, 13): il forte desiderio di entrare in unione di vita con Dio, abbandonando tutto il resto, tutto ciò che impedisce questa comunione e lasciandosi afferrare dall’immenso amore di Dio per vivere solo di questo amore. Cari fratelli, voi avete trovato il tesoro nascosto, la perla di grande valore (cfr. Mt 13,44-46); avete risposto con radicalità all’invito di Gesù: “Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; e vieni! Seguimi!” (Mt 19,21). Ogni monastero – maschile o femminile – è un’oasi in cui, con la preghiera e la meditazione, si scava incessantemente il pozzo profondo dal quale attingere l’“acqua viva” per la nostra sete più profonda. Ma la Certosa è un’oasi speciale, dove il silenzio e la solitudine sono custoditi con particolare cura, secondo la forma di vita iniziata da san Bruno e rimasta immutata nel corso dei secoli. “Abito nel deserto con dei fratelli”, è la frase sintetica che scriveva il vostro Fondatore (Lettera a Rodolfo, 4). La visita del Successore di Pietro in questa storica Certosa intende confermare non solo voi, che qui vivete, ma l’intero Ordine nella sua missione, quanto mai attuale e significativa nel mondo di oggi.
Il progresso tecnico, segnatamente nel campo dei trasporti e delle comunicazioni, ha reso la vita dell’uomo più confortevole, ma anche più concitata, a volte convulsa. Le città sono quasi sempre rumorose: raramente in esse c’è silenzio, perché un rumore di fondo rimane sempre, in alcune zone anche di notte. Negli ultimi decenni, poi, lo sviluppo dei media ha diffuso e amplificato un fenomeno che già si profilava negli anni Sessanta: la virtualità che rischia di dominare sulla realtà. Sempre più, anche senza accorgersene, le persone sono immerse in una dimensione virtuale, a causa di messaggi audiovisivi che accompagnano la loro vita da mattina a sera. I più giovani, che sono nati già in questa condizione, sembrano voler riempire di musica e di immagini ogni momento vuoto, quasi per paura di sentire, appunto, questo vuoto. Si tratta di una tendenza che è sempre esistita, specialmente tra i giovani e nei contesti urbani più sviluppati, ma oggi essa ha raggiunto un livello tale da far parlare di mutazione antropologica. Alcune persone non sono più capaci di rimanere a lungo in silenzio e in solitudine.
Ho voluto accennare a questa condizione socioculturale, perché essa mette in risalto il carisma specifico della Certosa, come un dono prezioso per la Chiesa e per il mondo, un dono che contiene un messaggio profondo per la nostra vita e per l’umanità intera. Lo riassumerei così: ritirandosi nel silenzio e nella solitudine, l’uomo, per così dire, si “espone” al reale nella sua nudità, si espone a quell’apparente “vuoto” cui accennavo prima, per sperimentare invece la Pienezza, la presenza di Dio, della Realtà più reale che ci sia, e che sta oltre la dimensione sensibile. È una presenza percepibile in ogni creatura: nell’aria che respiriamo, nella luce che vediamo e che ci scalda, nell’erba, nelle pietre… Dio, Creator omnium, attraversa ogni cosa, ma è oltre, e proprio per questo è il fondamento di tutto. Il monaco, lasciando tutto, per così dire “rischia”: si espone alla solitudine e al silenzio per non vivere di altro che dell’essenziale, e proprio nel vivere dell’essenziale trova anche una profonda comunione con i fratelli, con ogni uomo.
Qualcuno potrebbe pensare che sia sufficiente venire qui per fare questo “salto”. Ma non è così. Questa vocazione, come ogni vocazione, trova risposta in un cammino, nella ricerca di tutta una vita. Non basta infatti ritirarsi in un luogo come questo per imparare a stare alla presenza di Dio. Come nel matrimonio non basta celebrare il Sacramento per diventare effettivamente una cosa sola, ma occorre lasciare che la grazia di Dio agisca e percorrere insieme la quotidianità della vita coniugale, così il diventare monaci richiede tempo, esercizio, pazienza, “in una perseverante vigilanza divina – come affermava san Bruno – attendendo il ritorno del Signore per aprirgli immediatamente la porta” (Lettera a Rodolfo, 4); e proprio in questo consiste la bellezza di ogni vocazione nella Chiesa: dare tempo a Dio di operare con il suo Spirito e alla propria umanità di formarsi, di crescere secondo la misura della maturità di Cristo, in quel particolare stato di vita. In Cristo c’è il tutto, la pienezza; noi abbiamo bisogno di tempo per fare nostra una delle dimensioni del suo mistero. Potremmo dire che questo è un cammino di trasformazione in cui si attua e si manifesta il mistero della risurrezione di Cristo in noi, mistero a cui ci ha richiamato questa sera la Parola di Dio nella Lettura biblica, tratta dalla Lettera ai Romani: lo Spirito Santo, che ha risuscitato Gesù dai morti, e che darà la vita anche ai nostri corpi mortali (cfr. Rm 8,11), è Colui che opera anche la nostra configurazione a Cristo secondo la vocazione di ciascuno, un cammino che si snoda dal fonte battesimale fino alla morte, passaggio verso la casa del Padre. A volte, agli occhi del mondo, sembra impossibile rimanere per tutta la vita in un monastero, ma in realtà tutta una vita è appena sufficiente per entrare in questa unione con Dio, in quella Realtà essenziale e profonda che è Gesù Cristo.

[Benedetto XVI, Celebrazione dei Vespri nella Chiesa della Certosa di Serra San Bruno, 9 ottobre 2011]

lunedì 10 ottobre 2011

Il monastero, modello di una società che pone al centro Dio

I monasteri hanno nel mondo una funzione molto preziosa, direi indispensabile. Se nel medioevo essi sono stati centri di bonifica dei territori paludosi, oggi servono a “bonificare” l’ambiente in un altro senso: a volte, infatti, il clima che si respira nelle nostre società non è salubre, è inquinato da una mentalità che non è cristiana, e nemmeno umana, perché dominata dagli interessi economici, preoccupata soltanto delle cose terrene e carente di una dimensione spirituale. In questo clima non solo si emargina Dio, ma anche il prossimo, e non ci si impegna per il bene comune. Il monastero invece è modello di una società che pone al centro Dio e la relazione fraterna. Ne abbiamo tanto bisogno anche nel nostro tempo.

[Benedetto XVI, Incontro con la popolazione di Serra San Bruno nel Piazzale Santo Stefano antistante la Certosa di Serra San Bruno, 9 ottobre 2011]