martedì 29 marzo 2011

Tutta la nostra esistenza è una liturgia

Mi avete chiesto quale posto bisogna lasciare alla vita liturgica nei nostri monasteri. Rispondo senza esitare dicendo che bisogna dargli il più ampio spazio possibile. È per noi un principio di resurrezione quotidiana. Così, quando al mattino della sua professione, il monaco — completamente prosternato — ascolta il diacono che canta ad alta voce «Surge qui dormis et exurge a mortuis et illuminabit te Christus» («Alzati, tu che dormi, e il Cristo t’illuminerà»), egli sfiora questa potenza della liturgia alla quale le prime generazioni cristiane hanno aderito con tutto il loro essere. Per noi monaci, è tutta lì la nostra spiritualità; è per questo che non c’è, propriamente parlando, una spiritualità benedettina. Il monaco è un uomo interiormente ed esteriormente modellato dalla liturgia. È ciò che rende la nostra spiritualità così ampia, universale, accessibile ai nostri fratelli secolari.

L’idea che i riti e le formule sacre della liturgia siano sufficienti ad alimentare la nostra anima e a guidarla verso ascese mistiche, senza che abbiamo bisogno d’immergerci in trattati e in teorie elaborate nell’epoca moderna, è quella che prevalse durante sedici secoli, nel corso dei quali si sono formati trattati essenziali della spiritualità occidentale. Nella misura in cui siamo fedeli a questa ispirazione, ci ricongiungiamo ai primi cristiani. Con loro guardiamo verso la Gerusalemme celeste; con loro godiamo di questo strumento che è il corpo: le mani, gli occhi, la voce, il flettere le ginocchia e l’inchino profondo; ricordatevi di queste parole di sant’Agostino: «l’affezione del cuore si accresce con i gesti che la traducono» (PL XL, col. 597). Evidentemente a una condizione, ossia che i gesti conservino il loro valore. Il cristianesimo è asceso come un’aurora nel cielo della storia perché l’anima cristiana, attenta al rito, scorgeva a ogni passo come evidente il soprannaturale; il rapporto tra significante e significato restava vivo; ogni gesto attualizzava la fede; nulla mancava all’educazione dei nostri padri. Tutto questo dava alla vita una certa nobiltà. Charles Péguy lo ha bene inteso; conoscete il ricordo d’infanzia che ha raccontato, del tempo in cui viveva nel sobborgo Bourgogne, a Orléans: «Tutto era ritmo, rito e cerimonia… Tutto era un avvenimento, sacro… Tutto era un’elevazione interiore, una preghiera; tutta la giornata, il sonno e la veglia, il lavoro e quel po’ di riposo, il letto e la tavola, la casa e il giardino, la porta e la strada, il cortile e la soglia e i piatti sulla tavola».

Durante le età della fede, il bambino cristiano cresceva in tal modo in mezzo a una foresta di riti che gli parlavano del mondo invisibile, così come altrettanto chiaramente i segnali delle nostre strade ci indicano la direzione. Ma a noi, piccoli monaci dalla grande tradizione liturgica, cosa ci impedisce di bere a lunghi sorsi la verità dei simboli?

Se perciò ci viene chiesto quale posto ha la liturgia nella nostra vita monastica, risponderemo con la tradizione che essa è tutta intera l’esistenza del monaco, e anche — perché no? — tutta la vita cristiana, che sarà liturgica. Cioè tutta la sua vita sarà nutrita, illuminata, ritmata dalla santa liturgia.

Abbiamo una ben misera idea del battesimo, se pensiamo che sia soltanto «un biglietto d’ingresso per il cielo». Bisogna superare questa concezione limitata, ereditata dal protestantesimo, per il quale il sacramento, inefficace per sé stesso, non sarebbe altro che un titolo per la vita futura. Ricordatevi di queste parole decisive della Scrittura: «Voi vi siete invece accostati al monte Sion e alla città del Dio vivente, alla Gerusalemme celeste e a miriadi di angeli» (Eb 12,22); e «Così dunque voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio» (Ef 2,19). E ancora, forse il più bel testo di Paolo: «E noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore» (2 Cor 3,18). È in questa prospettiva liturgica che il nostro Padre abate dom Romain, una sera di Natale, diceva ai suoi monaci: «Siamo fatti per cose molto sante e solenni; siamo fatti per avanzare senza indugio a fianco di Dio».

Cosa significa, se non che le anime consacrate possono vivere solo in rapporto con la loro nuova dignità. Non hanno niente di studiato né di artificiale; ma bisognerà bene che qualcosa, in esse, esprima la nobiltà della loro condizione; qualcosa che debba tradursi fino a che si mantiene il nostro corpo. Ricordatevi della lettura del capitolo dell’ufficio feriale di Nona: «Siete stati comprati a caro prezzo. Glorificate dunque Dio nel vostro corpo», «Glorificate et portate Deum in corpore vestro». Non è proprio in gran parte grazie a questo mezzo eccezionale di educazione che cominciate a modificare un po’ il vostro modo di essere? Il servizio all’altare e la disciplina del coro non esercitano forse molto presto un’influenza sulla vostra anima e sul vostro corpo? Quando si sente il segnale dell’ufficio, vedete con quale gravità dovete avanzare lungo la navata, con quale raccoglimento vi saluterete tra di voi scambievolmente, vi girerete verso l’altare, immergerete le vostre anime in adorazione al Gloria Patri. Ma tutto ciò forse finisce non appena varcate la soglia della cappella per andare a intraprendere i vostri lavori? No, è tutta la vostra vita che si ammanterà come in una nuvola d’incenso, e si svolgerà in presenza di Dio e degli angeli; tutto avrà un valore sacro di offerta e di consacrazione; la vita del monastero si svolge allora come una processione invisibile in cui, grazie al silenzio, l’anima si abbevera a segrete libagioni.

Anche i lavori più umili sono segnati dalla liturgia poiché cominciano e si compiono sotto un segnale della campana che richiamerà al ritorno in coro. I nostri poveri lavori non sono sempre appassionanti! Ma compiuti in unione a Gesù di Nazaret, possono diventare una liturgia molto misteriosa e profonda. È giusto ricordare il pregevole pensiero di Pascal: «Fare le cose piccole come le grandi a motivo della Maestà di Gesù Cristo che le compie in noi e che vede la nostra vita, e le grandi come piccole e facili a causa della sua onnipotenza».

Ecco perché il luogo di culto del monastero non è solo la chiesa, ma il monastero tutto intero, con le sue più umili dipendenze. Il refettorio è il luogo che assomiglia maggiormente alla chiesa, con la sua volta solenne, la sua preghiera prima e dopo il pasto, il carattere comunitario e gerarchico — riconoscibile dalla disposizione dei posti —, la cattedra del lettore dove sarà letto senza discontinuità, recto tono, un libro destinato a nutrire lo spirito, finché il corpo si distende. Anche l’abito è una scuola di preghiera che disciplina i movimenti del corpo. Il monaco professo, nel corso della celebrazione per la professione solenne, è stato vestito della cocolla, il suo abito da coro. Sapete che nel suo ultimo giorno, avvolto nelle pieghe della sua cocolla, il monaco sarà deposto nella nuda terra, per attendere la Resurrezione.

Si percepiscono nel rito di vestizione della cocolla monastica diversi simboli sovrapposti: è immagine dell’abito nuziale che prefigura la veste della gloria celeste; esprime inoltre il perdono e la grazia del figlio riconciliato. (Ah!, com’è dolce sapersi alla fine riconciliati con il Padre). La cocolla nera significa anche il lutto dalle gioie terrene, la veglia notturna, la sepoltura, l’attesa del soldato e del servo.

Il chiostro, questo deambulatorio sacro, penetrato di silenzio, che non conduce in nessun luogo, è simile alla contemplazione circolare di cui parla Dionigi l’Areopagita. Il termine di questa meditazione perpetua è diretta verso il cielo, al di sopra delle nostre teste; verso l’alto e non in avanti, immagine di un superamento spirituale, perché il nostro Dio abita in una luce inaccessibile. Persino la parola, anche la più prosaica, riveste un significato sacro, grazie all’uso parsimonioso che ne facciamo e al rito d’introduzione che ne regola l’esercizio: il monaco mette un dito davanti alle sue labbra, e aspetta un segnale dal suo superiore per parlare. Questo segnale (Benedicite!) unisce la parola usuale al cantico di benedizione che compone l’ufficio divino. Che esigenza! Bisognerebbe parlare solo per benedire. Spesso mi domandate il segreto che ci permetta di vivere sempre in preghiera, alla continua presenza di Dio. La risposta è semplice: considerate la vostra vita come una grande liturgia sacra; tutto vi prende calore perché tutto è compiuto in unione con Gesù Cristo sotto lo sguardo del Padre. Allora un’unità profonda lega intimamente tutte le nostre azioni. «Sia che mangiate, sia che beviate — dice san Paolo —, fate tutto per la gloria di Dio». Da qui, il monaco ritrova unità, non solo in sé stesso, ma anche con il resto della creazione.

Tuttavia se la liturgia impregna tutta le nostre azioni, non è come un vaso le cui pareti isolanti ci separano dal resto del mondo. Senza dubbio abbiamo scelto di chiudere gli occhi alle provocazioni del secolo; ma il miracolo della liturgia consiste nel permetterci d’integrare l’universo, in uno sforzo di trasfigurazione che è opera della poesia sacra. Non si può vivere senza poesia. In ogni caso, la Chiesa non ha deciso così per noi. Ha posto i migliori poemi dell’umanità sulle nostre labbra, per fare di noi dei cantori e dei sacerdoti del Sacrificio di Lode. In una celebre pagina Jacques Bénigne Bossuet pone la funzione sacerdotale dell’uomo al cuore stesso della vocazione, come un dovere imprescindibile di «prestare voce, intelligenza, cuore ardente d’amore per tutta la natura visibile, affinché essa possa amare, in lui e per lui, la bellezza invisibile del suo Creatore. È per questo che l’uomo è messo al centro del mondo, come industriosa concentrazione del mondo…, il grande mondo nel piccolo, perché — ancora — sebbene il corpo sia rinchiuso nel mondo, l’uomo ha uno spirito e un cuore più grandi del mondo, affinché contemplando l’universo intero e riunendolo in sé stesso, lo offra, lo santifichi, lo consacri al Dio vivente. Quantunque non sia il contemplatore e misterioso concentrato della natura visibile, finisce per esserne, per un santo amore, il sacerdote e l’adoratore della natura invisibile e intellettuale» (Sermon pour la fête de l’Annonciation, 1662).

Ma questa funzione sacerdotale non può compiersi se non attraverso Cristo, perché Lui solo può salvare, reggere, assumere e condurre al suo fine la creatura che ha lanciato nello spazio nei primi giorni della Genesi. In un sermone sul battesimo di nostro Signore, san Gregorio di Nazianzo descrive Gesù «mentre esce dall’acqua, attirando il mondo in qualche modo con sé ed elevandolo a sé».

Pietro il Venerabile, abate di Cluny, testimonia la sua ammirazione verso Cristo luce del mondo, con una sontuosa invocazione: «Christe, Dei splendor, qui splendida cuncta creati, Kyrie Eleison!» («Cristo, splendore di Dio, che hai creato tutte le cose nello splendore, abbi pietà di noi», Ex epistola Petri Venerabilis IX LS VI Epist. XXXII).

Avete in questi esempi tutto ciò che vi è necessario per compiere attraverso la preghiera questo compito di riassumere l’universo sotto lo scettro di Gesù Cristo. Che il monaco, sacerdote o no, consideri la sua vocazione come una grande avventura spirituale: ogni mattina, quando il giorno che si leva gli apre una pagina bianca sulla quale scriverà il poema della sua vita, possa dire in verità con il salmista: «Effonde il mio cuore liete parole, io canto al re il mio poema. La mia lingua è stilo di scriba veloce» (Sal 44,2). In effetti lo zelo per la lode e l’onore di Dio farà di tutta la sua vita un canto ininterrotto e questo canto lo farà progredire nella virtù, quanto il progresso spirituale lo porterà a cantare a vantaggio della gloria del suo Signore. Questa causalità reciproca fu il programma dei benedettini di Cluny; ne trovarono l’idea perfettamente formulata in una celebre orazione del messale: «Gloriam Dei sempiternam et proficiendo celebrare et celebrando proficere». Progredendo, il monaco celebra meglio la gloria eterna di Dio e celebrandola avanza in santità.

O santa liturgia, onore della Chiesa, tu che ispiri tanti monumenti d’arte e poesia, tu che ispirasti a san Francesco, il poverello, di cantare la gloria del suo Signore sulle strade del mondo; tu che metti sulle nostre labbra il cantico degli eletti e regoli i nostri passi nel cammino verso il cielo; tu che cacci dai nostri cuori l’impurità e li attiri dolcemente verso i beni invisibili: ti giuriamo fedeltà fino alla morte e anche nell’al di là, in quel paradiso di cui ci sveli qualcosa degli splendori indicibili.

[Dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), La santa liturgia, trad. it., Nova Millennium Romae, Roma 2011, pp. 71-80]

sabato 26 marzo 2011

Per la Quaresima: la lectio divina

[Estratto dal commento al capitolo 49 della Regola di san Benedetto,

La lettura e l'ascolto della Parola di Dio è la prima e più importante opera buona della Quaresima, perché essa determina tutto il nostro comportamento. La Parola di Dio è un battesimo di luce, di calore, di forza, di dolcezza, di gioia. È, anzitutto, un fuoco che brucia le scorie del nostro peccato. Se l'accogliamo sul serio, la Parola ci passa davvero al crogiuolo, opera in noi miracoli strepitosi. Ma bisogna mettersi sotto la Parola come sotto una grande pioggia, lasciarsi investire da essa come da un fuoco divampante; esporsi alla Parola come a una spada che colpisce in pieno petto, invece di spostarci perché ci passi accanto senza ferirci il cuore.

[Anna Maria Cànopi O.S.B., Mansuetudine: volto del monaco. Lettura spirituale e comunitaria della Regola di san Benedetto in chiave di mansuetudine, 4a ed., Edizioni La Scala, Noci (Bari) 2007 p. 366]

giovedì 24 marzo 2011

Una regola di vita interiore / seconda parte

Tre massime negative

1 – Bisogna stare attenti a non imprigionare la vita spirituale negli esercizi che le sono propri. Le stesse Sentenze e Massime di san Giovanni della Croce non vanno bene a tutti in maniera indistinta. Bisogna fare i conti con l’ispirazione dello Spirito Santo, che è la luce delle luci. La regola d’oro della vita spirituale non è scritta; ogni cammino è unico: si tratta essenzialmente di corrispondere alla grazia.
2 – Evitare di sfarfallare in maniera eclettica, come quello che vuole leggere di tutto, buttarsi su ogni autore, desiderare di sapere tutto. C’è una grande saggezza nel considerare quale fu la prima grazia che ci ha attirato alla vita interiore, e nel conservarla: quale onda misteriosa ha toccato la nostra anima? Talvolta la bellezza della vita di un santo, un esempio di virtù, un avvenimento ricco di significato, una parola o un mistero della vita di Cristo, sono sufficienti per aprire un’anima alla luce. La nostra unità interiore si costruisce meno con un ammasso di conoscenze successive, piuttosto che con la fedeltà costante alla grazia iniziale. Ma questa richiede un’acutezza di sguardo che ha poco di ordinario. André Charlier diceva: «La regola principale della vita spirituale è che bisogna sempre rinnovare lo sguardo che posiamo sulle cose essenziali».
3 – Non bisogna esporre agli occhi di tutti il segreto della propria vita interiore. Quello che va bene per me forse non va bene a un altro. Per quanto riguarda un dogma, tutti devono crederci e accettarlo. Sul piano spirituale invece è ammissibile una grande libertà: tenete caro ciò in cui riuscite. Un istinto segreto avvertirà che si è sulla buona strada: «L’uomo spirituale giudica ogni cosa, senza poter essere giudicato da nessuno» (1 Cor 2,15).

Il gusto di Dio

Al di sopra di ogni disciplina e regolamento, bisogna innalzare qualcosa di primordiale, che dia il suo senso a tutto il resto: il gusto di Dio. Prima di leggere la Regola dei monaci al postulante, san Benedetto gli domanda se veramente cerca Dio. Se ha sete di quel solo che potrà dissetarlo. Il dono della saggezza fa gustare quanto il Signore è dolce, sveglia nell’anima un’attrattiva per le verità soprannaturali. Questa attrazione spiega la storia delle anime, è questo che le conduce al chiostro, che fa alzare il figliol prodigo e gli fa dire: Mi alzerò e andrò da mio Padre. Vi esorto a coltivare questo gusto di Dio, ad alimentarlo con la lettura, la meditazione e la preghiera. È per l’anima una fonte inesauribile di dolcezza. Al di sopra di ogni gioia terrena, di ogni consolazione umana, di ogni disastro, forse e al di là di ogni caduta, ci sarà questo patto segreto d’amore che ricompenserà ogni cosa.

La lettura

È una cosa assolutamente normale leggere per istruirsi; ben più raro è leggere per nutrire la propria anima. Si tratta allora di leggere e di rileggere lentamente un libro che piace: il Vangelo, le Lettere, l’Imitazione di Cristo o gli scritti dei santi, o qualsiasi altro libro capace di incidere nel proprio spirito qualcosa di eterno. Gustave Thibon racconta che, durante un viaggio in aereo che portava degli studiosi a un congresso di filosofia, uno di loro – era Gabriel Marcel – domandò al suo vicino: «Se l’aereo avesse un’avaria e lei fosse in pericolo, la sua filosofia la aiuterebbe a prepararsi alla morte?». La risposta fu negativa. È proprio a questo che dovrebbero servirci le nostre letture: chiarire e confortarci nelle nostre intime convinzioni. È da raccomandare la lettura con la matita in mano, raccogliere le idee a noi care su un «quaderno dei perché» e tappezzare la propria memoria con qualche testo importante che ci dia il senso della vita.

[Dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), Une règle de vie intérieure, originariamente in Itinéraires, n. V (seconda serie), marzo 1991; poi, in versione aumentata, come pubblicazione a sé stante dal titolo Une règle de vie, Editions Sainte-Madeleine, Le Barroux 1994; da quest’ultima ripresa in Benedictus. Écrits Spirituels. Tome II, Editions Sainte-Madeleine, Le Barroux 2010, pp. 376-402 (da cui la presente traduzione; qui pp. 380-382), trad. it. delle monache del Monastero San Benedetto di Bergamo / 2 - continua]

martedì 22 marzo 2011

Una regola di vita interiore / prima parte

«Non credete ai distruttori delle regole
che parlano in nome dell’amore.
Là dove la regola è frantumata, l’amore abortisce»
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(Gustave Thibon)


Introduzione


Due parole riassumono magnificamente la spiritualità monastica del XII secolo: Magnitudo, grandezza dell’uomo immagine di Dio, e rectitudo, lo sforzo necessario di rettitudine dopo la caduta nel peccato originale. La parola regola, che ha la stessa radice di rectitudo, non ha una buona fama, salvo tra i monaci benedettini che vedono nella Regola del loro patriarca un monumento di saggezza e l’espressione santissima della volontà di Dio.
Vittime da due secoli di una falsa filosofia, abbiamo finito per vedere nella regola un intralcio alla libertà, quando invece ne è la condizione stessa. Quarant’anni fa Gustave Thibon aveva lanciato questo terribile avvertimento: «Disprezzi le regole, le tradizioni e i dogmi. Non vuoi imporre nessun inquadramento dottrinale al tuo bambino, al tuo discepolo; benissimo. Gli dai da bere un vino prezioso, dimentichi solo di dargli una coppa; cos’è il vino senza coppa? Un ruscello che cade a terra, ed eccolo versato, produce il peggior fango».
La tradizione militare e l’esperienza del comando testimoniano in favore dell’obbedienza alla regola. Ecco le parole di un ufficiale (capitano André Bridoux, Souvenirs du temps des morts):
«Più la regola è severa, più c’è libertà. Questo si capisce. Un capo sicuro dei suoi subordinati può essere generoso nel concedere favori.
«Si può soffrire qualche volta di essere comandati troppo o male; si soffre ancora di più di non esserlo affatto, perché il disordine si produce subito e la più grande disgrazia pesa allora sui piccoli.
«Questo rispetto della regola stretta porta lontano, e in particolare a una grande severità nei giudizi perché, secondo questo principio, il cavaliere d’Assas non ha fatto che il suo dovere; è meglio appoggiarsi alla perfezione della regola che sull’imperfezione della natura.
«Gli uomini saranno sempre obbligati ad assicurarsi contro sé stessi. La buona volontà non è sufficiente, perché presto si piegherebbe di fronte alla prova ripetuta del pericolo della morte, prima ancora davanti al ripetersi di lavori semplici ma noiosi che riempiono la vita del soldato e che sono tuttavia indispensabili»
.
Quante anime rimpiangono tardi di non avere saputo serrare la propria vita in un corsetto di ferro di una regola morale esigente! Il suo impiego ragionevole avrebbe loro risparmiato lo spettacolo desolante di un’esistenza senza regole, fatta di mollezza e di pigrizia. «Ah! Se si potesse rifare…», si dicono con un tono toccante. Ma la parola inesorabile del poeta cade come una spada: Never more!
Senza una disciplina personale, non c’è artista, non c’è scrittore, non c’è ingegnere; talento personale e santità sono votate allo scacco. Senza regola, non c’è capolavoro, non c’è vita contemplativa, non c’è elevazione mistica. È arrivato il momento di sbarazzarsi degli slogan faciloni che ricoprono il suolo putrescente di questo tempo, e di ritrovare il segreto degli antichi per diventare, non degli imbroglioni disonesti, ma dei saggi artigiani delle nostre vite. Non ricordo quale scrittore diceva: «Il genio consiste nel sedersi all’ora prefissata al proprio tavolo di lavoro».
Comunque bisogna ricordare – soprattutto per quanto riguarda l’ordine spirituale – il paragone stabilito da Charles Péguy tra le regole dure e le regole morbide, queste essendo più esigenti di quelle, perché impegnano l’uomo in una zona di profondo legame. È solo in questo senso, e non senza qualche apprensione, che proponiamo una regola di vita dell’anima.

[Dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), Une règle de vie intérieure, originariamente in Itinéraires, n. V (seconda serie), marzo 1991; poi, in versione aumentata, come pubblicazione a sé stante dal titolo Une règle de vie, Editions Sainte-Madeleine, Le Barroux 1994; da quest’ultima ripresa in Benedictus. Écrits Spirituels. Tome II, Editions Sainte-Madeleine, Le Barroux 2010, pp. 376-402 (da cui la presente traduzione; qui pp. 376-378), trad. it. delle monache del Monastero San Benedetto di Bergamo / 1 - continua]

lunedì 21 marzo 2011

Die 21 martii - S. P. N. Benedicti Abbatis

Omnipotens sempiterne Deus, qui hodierna die carnis eductum ergastulo sanctissimum Confessorem tuum Benedictum sublevasti ad cælum: concede, quæsumus, hæc festa tuis famulis celebrantibus cunctorum veniam delictorum; ut, qui exsultantibus animis eius claritati congaudent, ipso apud te interveniente, consocientur et meritis. Per Dominum nostrum Iesum Christum, Filium tuum, qui tecum vivit et regnat, in unitate Spiritus Sancti, Deus, per omnia sæcula sæculorum. Amen.

Celebriamo oggi il transito del nostro santo Padre Benedetto, e conviene dire qualche parola su di lui anche perché vi vedo avidissimi di ascoltare. Come buoni figli, vi siete radunati insieme per sentir parlare del vostro Padre, «che vi ha generati in Cristo Gesù mediante il Vangelo» (1 Cor 4,15). Sappiamo del suo transito e vedremo da dove e verso dove passò. È passato dal luogo in cui ora ci troviamo ed è andato dove noi ancora non siamo arrivati. Ma, pur non avendo possibilità di essere col corpo nel luogo dove egli è passato, vi siamo con la speranza e con l'amore. Come dice il nostro Redentore: «Là dov'è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore» (Mt 6,21). Infatti anche lo stesso Benedetto, quando viveva qui con il corpo, dimorava in quella patria celeste con il pensiero e il desiderio. È passato dunque il Padre nostro Benedetto oggi dalla terra al cielo. Per Cristo è passato a Cristo: per la fede in Cristo Gesù, che operava in lui per amore, è passato alla visione e alla contemplazione in cui viene saziato ogni desiderio di tutti i beni. Dunque la sua via fu Cristo, che disse di sé stesso nel Vangelo: «Io sono la via, la verità e la vita» (Gv 14,6). Per mezzo di lui è giunto a lui, perché egli è la vita ed egli è la via. La sua rettissima via fu anche la perfetta vita del nostro Padre. La via della vita fu la santità di Benedetto.
Questa via all'inizio è stretta, ma poi, come c'insegna lo stesso san Benedetto nella sua Regola, con ineffabile dolcezza di amore si corre la via dei divini voleri. Per i principianti è stretta: tale era per Davide quando disse: «Per la parola delle tue labbra, ho seguito gli stretti sentieri» (cfr. Sal 16,4). Anche il beato Benedetto trovò questa via stretta all'inizio della sua conversione, ma alla fine lietissima. E quando la trovò stretta, cosa fece? Forse si scostò da essa? Anzi vi aderì e stette virilmente su di essa. Egli stesso visse per primo quel che insegnò, per poter insegnare a noi stessi suoi seguaci ciò che lui aveva vissuto. Con quale virilità stette sulla via di Dio, lo possiamo cogliere dalle sue parole. Nella sua Regola esorta a non fuggire dominati dallo sgomento la via della salute di cui gli inizi, come gli ha mostrato la sua stessa esperienza, non possono essere che stretti. Sapeva infatti che, quantunque fosse strettissima, conduceva alla vita, come disse il Signore: «Angusta è la via che conduce alla vita e quanto pochi sono quelli che la trovano!» (Mt 7,14).
Quale sia la vita a cui questa via conduce, ce l'insegna lo stesso Signore in un altro brano: «Questa è la vita eterna: che conoscano te, l'unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo» (Gv 17,3). Per tutto il tempo in cui uno trepida sulla via di Dio, la trova difficile e sente la sua asprezza.
Ma quando raggiunge quell'amore che, essendo perfetto, scaccia ogni timore, allora con un'immensa gioia proclama insieme con l'Apostolo: «Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede» (2 Tim 4,7).
Per questa via san Benedetto passò dalla morte alla vita. Certamente fu un transito felice, perché la sua vita fu degna di lode. Seguiamo le orme del santo Padre nostro Benedetto. Abbiamo una sicurissima via, per cui possiamo giungere fin lì: cioè la sua Regola e il suo esempio. Se seguiamo questa via, come dobbiamo, e se perseveriamo su di essa, senza dubbio arriveremo anche noi là, dove è giunto lui.

[Dai Discorsi del beato Elredo abate, in Unione Monastica Italiana per la Liturgia, L'Ora dell'Ascolto. Lezionario biblico-patristico a ciclo biennale per l'ufficio delle letture, Piemme - Edizioni del Deserto, Casale Monferrato (Alessandria) 2007, pp. 2354-2355]

lunedì 14 marzo 2011

Per la Quaresima: aiutiamo a costruire un monastero

Lo scorso mese di giugno abbiamo riprodotto un estratto di pochi minuti del documentario realizzato da Wenceslas Nourry, relativo al monastero Sainte-Marie de la Garde, la comunità di monaci benedettini inviati in fondazione, nel 2002, dall’abbazia Sainte-Madeleine di Le Barroux e installatasi sul luogo di un’antica fortezza medievale. Siamo ora lieti di riprodurre l'intero documentario.
I lavori di costruzione del monastero proseguono, come abbiamo documentato del tutto recentemente, ma necessitano di un grande sforzo economico per essere sostenuti. I monaci di Sainte-Marie de la Garde hanno bisogno di aiuto, e associandoci personalmente all’erezione del monastero potremo partecipare alla creazione di un nuovo centro d’irradiamento spirituale e contribuiremo alla crescita di questa giovane comunità. «Aiutateci a raccogliere questa sfida, irrazionale agli occhi del mondo, ma che dà senso alla vita. Diventate costruttori di speranza!» (Dom Louis-Marie Geyer d'Orth O.S.B., abate di Le Barroux).
In questo tempo di Quaresima, offriamo il nostro generoso contributo e aiuto alla costruzione del monastero Sainte-Marie de la Garde.

sabato 12 marzo 2011

Salmo 90. Il combattimento spirituale

La prima domenica di Quaresima la Chiesa ci fa cantare durante la Messa, in extenso, il Salmo 90, cioè il salmo del combattimento spirituale, il salmo del soccorso angelico e il salmo della confidenza.
San Bernardo, abate di Clairvaux, ci ha lasciato diciassette omelie su questo salmo della Compieta, che i monaci cantano a memoria, ogni sera, nella penombra della loro chiesa. La giornata è terminata, ma il combattimento continua fino alla soglia del riposo, e la confidenza in Dio ne addolcisce il rigore.
Occorre comprendere cosa rappresenta questo combattimento quotidiano, impercettibile a uno sguardo estraneo, questa lotta incessante contro le debolezze della natura, per percepire i benefici del Salmo 90, completamente illuminato dalla vittoria di Dio e dal soccorso degli angeli.

Qui habitat in adjutorio Altissimi, in protectione Dei cæli commorabitur.
Tu che abiti al riparo dell’Altissimo e dimori all’ombra dell’Onnipotente,

Habitat è la parola chiave che dà il tono a tutto il salmo: la posta in gioco del combattimento spirituale è di abitare in Dio; come dice il testo ebraico, «nel segreto del suo volto». Dio desiderabile e Dio pronto ad aiutare, ecco la ragione formale della virtù di speranza. L’atto della speranza è quindi formato da un duplice movimento di tensione e di riposo. Severa e dolce virtù! Mediante essa l’anima precorre con audacia il termine della sua corsa.
Perciò colui che abita al riparo del Signore dimora già sotto la protezione del Dio del cielo. Il segreto della pace cristiana, che intriga così fortemente l’incredulo, proviene da ciò che in questa ricompensa sperata è già misteriosamente dato: colui che abita, dimora. Come la parola di Gesù in san Giovanni: «Rimanete nel mio amore» (Gv 15,9).

Dicet Domino: Susceptor meus es tu, et refugium meum; Deus meus, sperabo in eum.
dì al Signore: «Mio rifugio e mia fortezza, mio Dio, in cui confido».

Questo abitante di Dio dirà al Signore: «Mio rifugio e mia fortezza». Il termine Susceptor, composto di sub e di capere – prendere o scegliere dal basso – suggerisce l’immagine del bambino portato da sua madre. «Colui appoggiato al mio braccio come un bambino che ride, costui mi piace, dice Dio!» (Charles Péguy). E il salmista prosegue: «mio Dio, in cui confido». Il resto del salmo non è altro che uno sviluppo dei due primi versetti; un modo di monetizzare, frase dopo frase, l’oro della Santa Speranza.

Quoniam ipse liberavit me de laqueo venantium, et a verbo aspero.
Egli ti libererà dal laccio del cacciatore, dalla peste che distrugge.

Quoniam ipse... Perché è Egli stesso, lui in persona che mi libererà dal laccio del cacciatore. Santa Gertrude di Hefta fu illuminata sul significato di queste parole: i cacciatori sono i demoni; e le ultime parole del versetto, «a verbo aspero», significano la risposta che ricevono le vergini stolte bussando alla porta del banchetto: «Non vi conosco», frase dura fra tutte! Si noti come i salmi, nel loro senso pieno, vanno oltre l’aneddoto che dà loro vita, per orientarci verso i fini ultimi: è lo stesso Signore, Ipse, e non un altro, che ci libererà dai lacci del demonio e dalla riprovazione finale cui conducono. I salmi di speranza attraversano i secoli e non si esauriranno che alla soglia dell’eternità, ovvero davanti alla dolce parola: «Venite benedetti del Padre mio»; oppure davanti al duro monito: «Non vi conosco!».

Scapulis suis obumbrabit tibi, et sub pennis ejus sperabis.
Ti coprirà con le sue penne sotto le sue ali troverai rifugio.

Il Signore è simile a un grande volatile che protegge i suoi piccoli sotto le sue ali. Si tratta di un’immagine alla quale lo Spirito Santo ama ricorrere: come dice il Salmo 35, «I figli degli uomini all’ombra delle tue ali spereranno», «Filii hominum in tegmine alarum tuarum sperabunt»; e lo stesso Nostro Signore si è paragonato a una chioccia che raduna i suoi pulcini sotto le piume. Commenta sant’Agostino: «Ti appoggia sul suo cuore, ti protegge con le sue ali per salvarti dagli artigli dello sparviero; rifugiamoci sotto le ali della Sapienza, madre nostra, che ci attendeva». Si dovrebbe sempre recitare questo versetto con un sentimento di tenerezza e gratitudine.

Scuto circumdabit te veritas ejus: non timebis a timore nocturno;
La sua fedeltà ti sarà scudo e corazza; non temerai i terrori della notte

I salmi alternano immagini campestri e immagini guerriere. La parola Veritas, in ebraico «émèt», può significare verità o fedeltà! L’idea di un Dio fedele alle sue promesse permea la Bibbia e gli esegeti traducono volentieri Veritas con fedeltà, ciò che non è scorretto. Ma, in effetti, non è la verità dell’amore che lo rende fedele? E i falsi dèi sono allora tutti morti, perché noi cessiamo di reclamarci al solo Dio vivo e vero? In questa lotta dello spirito, in cui tante illusioni nascono e muoiono come il fumo, non è fuori tema paragonare la Verità di Dio a questa cosa concreta e robusta: lo scudo corazzato che avvolge il guerriero e lo protegge contro «i terrori della notte».

A sagitta volante in die, a negotio perambulante in tenebris, ab incursu, et dæmonio meridiano.
né la freccia che vola di giorno, la peste che vaga nelle tenebre, lo sterminio che devasta a mezzogiorno.

Parlando delle ferite dovute al peccato originale, nell’Apocalisse san Giovanni nomina tre concupiscenze: la concupiscenza degli occhi, la concupiscenza della carne e l’orgoglio della vita. Sembra che questo versetto faccia allusione a questi tre mali: appoggiandosi al soccorso divino, l’anima non temerà né la freccia del desiderio altero, che vola al di sopra delle teste, simbolo della volontà di potenza e della dismisura; né quell’amore delle ricchezze che simboleggia il negozio delle tenebre e il suo corteo di menzogne; né gli attacchi del demone meridiano, che sconvolge particolarmente le anime giunte nel mezzo della loro vita, nell’età della piena maturità.

Cadent a latere tuo mille, et decem millia a dextris tuis; ad te autem non appropinquabit.
Mille cadranno al tuo fianco e diecimila alla tua destra; ma nulla ti potrà colpire.

Il salmo si presenta come un canto di guerra, che il sentimento cattolico traduce d’istinto in combattimento spirituale. Si pensa inevitabilmente a tutte le protezioni miracolose che circondano l’anima dei santi; non che essi siano indenni dalle prove dell’esistenza, ma una Provvidenza li salva dalla sola caduta che si deve temere: quella del peccato e della sua decadenza. Questa posizione eretta nel mezzo delle migliaia che cadono, è la purezza delle prime vergini cristiane in mezzo alle impurità del mondo pagano. E ancora l’anima dei nostri bambini minacciati dal materialismo del mondo moderno; e Dio conosce la spaventosa quantità di cadute! Ma non disperate dell’anima dei vostri piccoli. La purezza è sempre possibile; lo Spirito Santo ne fa un punto d’onore, e i sacerdoti guardano con ammirazione come anche al giorno d’oggi, al prezzo di squisite gentilezze, la purezza fende il flotto dell’impurità, con un accento di umile trionfo, che non appartiene ad altro che alla carità cristiana.

Verumtamen oculis tuis considerabis, et retributionem peccatorum videbis.
Solo che tu guardi, con i tuoi occhi vedrai il castigo degli empi.

Il salario dei malvagi, cioè il castigo che meritano, rimane tuttavia nascosto – perlomeno la maggior parte delle volte – allo sguardo dei perseguitati. Ma il futuro di videbis non rimanda al giorno ultimo: Mihi vindicta! A me la vendetta, dice il Signore. Questo scombussola la nostra sensibilità moderna, e il Dio vendicatore non ci attrae alquanto; ma non dimentichiamo che il popolo d’Israele ha cantato questi salmi per incoraggiarsi alla vittoria. La religione guerriera dei nostri avi consisteva essenzialmente nel prendere la parte di Dio, con una solida parzialità e una perfetta assenza di sfumature! Quanto a noi che, al giorno d’oggi, recitiamo questi salmi, lasceremo la retribuzione dei peccatori racchiusa nel mistero di un Dio le cui vie non sono le nostre vie, e «che punisce l’uomo con la gloria».

Quoniam tu es, Domine, spes mea; Altissimum posuisti refugium tuum.
Poiché tuo rifugio è il Signore e hai fatto dell’Altissimo la tua dimora,

Il salmista riprende con felicità il suo canto iniziale, che dà al salmo il suo carattere di gioiosa speranza. Cosa c’è di più dolce che dire a Dio «Tu es spes mea»? Cosa c’è di più dolce che cantare ogni sera questa essenziale verità, ovvero che Dio è il nostro unico soccorso nonché l’unico a saziarci? Oh, umano desiderio, dai libero corso alla tua sete d’assoluto; ecco la tua pienezza! Non aspirare a null’altro che a Dio, se non vuoi rimanere deluso, perché solo lui – che l’ha fatta nascere in te – può estinguere la tua sete.

Non accedet ad te malum, et flagellum non appropinquabit tabernaculo tuo.
non ti potrà colpire la sventura, nessun colpo cadrà sulla tua tenda.

Troviamo qui la medesima idea del settimo versetto: quella di una cristianità nel contempo minacciata e indenne. Cosa ne pensano i nostri fratelli libanesi? Possiamo affermare che la sventura non li abbia colpiti? Che dire di un’atrocità quotidiana? Ebbene, lo diciamo ad alta voce, il male non si accosta alle anime pure, poiché il male assoluto è il peccato e la dannazione. Il resto, ovvero il sangue e le lacrime, la distruzione di un popolo, è il segreto della Provvidenza, un segreto che ci sarà rivelato solo il giorno del Giudizio. La sventura non è ciò che crediamo, e accade persino che si tratti di un travestimento della dolcezza di Dio. Cosa ne pensano gli angeli?

Quoniam angelis suis mandavit de te, ut custodiant te in omnibus viis tuis.
Egli darà ordine ai suoi angeli di custodirti in tutti i tuoi passi.

Ausiliari di tutte le battaglie di Dio, ecco i santi angeli, questi fratelli affettuosi e soccorritori che il Signore invia e ai quali dà un mandato assai preciso – mandavit –, ossia di custodirci in tutti i nostri passi. Nulla quindi è escluso. Ovunque, in ogni luogo, in ogni mansione – quelle dell’intelligenza, quelle del corpo che corre i suoi rischi – vi sono i santi Angeli custodi, meravigliose creature dalle quali, per quanto appesantiti che siamo, riceviamo in prestito le ali. Ma questi esseri superiori non ne derivano alcuna avversione, nessun disprezzo; rimangono i nostri fratelli maggiori, attenti e devoti. Sappiamo scorgere in questi puri spiriti una concentrazione di forze vive e amorevoli, il sorridere di Dio all’umanità, gli esecutori intelligenti della sua Provvidenza.

In manibus portabunt te, ne forte offendas ad lapidem pedem tuum.
Sulle loro mani ti porteranno perché non inciampi nella pietra il tuo piede.

Quest’immagine squisita, di una dolcezza tutta materna, è stata ispirata dallo Spirito Santo al salmista per dirci qualcosa delle attenzioni della grazia: tutto il cielo cospira al nostro avanzamento; migliaia di occhi invisibili seguono ogni nostro minimo passo e gli angeli, nostri fratelli, ci portano sulle loro mani: ciò sta a dire che riceviamo da loro – in quanto sono immateriali – i soccorsi di una grazia potente e dolce, facile come un respiro o un sorriso. Quante volte, povera anima, che inciampi nella notte, ti sono stati evitati gli scontri con la pietra che ferisce. Ed ecco che un sentimento di confidenza e gratitudine ti pervadeva e ti sollevava nell’atmosfera di Dio: gli angeli ti portavano sulle loro mani!

Super aspidem et basiliscum ambulabis, et conculcabis leonem et draconem.
Camminerai su aspidi e vipere, schiaccerai leoni e draghi.

L’aspide e il basilisco sono rettili velenosi; il soccorso angelico tende a fare di noi degli eroi invincibili, capaci di sconfiggere serpenti e draghi. Quanti serpenti e bestie selvatiche si disputano quel cuore umano che Pascal definisce cloaca d’impurità? Che gli angeli ci aiutino dunque ad atterrire tale fauna di sensualità e di orgoglio malevolo. Ci aiutino a calpestare la gelosia, il rancore, l’amor proprio, i nostri soli nemici; e che rinasca in noi l’umile e tonificante fierezza delle vittorie di Dio.

Quoniam in me speravit, liberabo eum; protegam eum, quoniam cognovit nomen meum.
Lo salverò, perché a me si è affidato; lo esalterò, perché ha conosciuto il mio nome.

Gli ultimi tre versetti del Salmo 90 si occupano delle alte sfere: è il Signore che prende la parola, e di cosa ci parla? Anzitutto ci dice che ci salva, se speriamo in lui, e che ci protegge, se «conosciamo il suo nome». Cosa significa? Conoscere il nome di Dio è ben più che riconoscergli alcuni attributi, come la Giustizia o la Misericordia. Significa designarlo tramite la sua essenza: l’Amore. La Follia di questo Amore infinito fonda una confidenza in Dio che, nel suo ordine proprio, dev’essere – anch’essa – infinita.

Clamabit ad me, et ego exaudiam eum; cum ipso sum in tribulatione: eripiam eum, et glorificabo eum.
Mi invocherà e gli darò risposta; presso di lui sarò nella sventura, lo salverò e lo renderò glorioso.

«Sono con lui nella tribolazione e nelle prove amare»«Davvero, Signore, siete con noi in questo terribile disordine?»«Povera anima, è proprio vero: vengo a cercarti nel profondo della tua angoscia per strappartene e introdurti nella gloria». Che luce proietta sul problema del male questo impressionante tratto! «Lo salverò e lo renderò glorioso»! Com’è che Dio glorifica il suo servitore?

Longitudine dierum replebo eum, et ostendam illi salutare meum.
Lo sazierò di lunghi giorni e gli mostrerò la mia salvezza.

Il Signore emette una solenne promessa. «Gli mostrerò la mia salvezza», cioè «gli farò vedere cosa significa essere salvato», o ancora «gli mostrerò il mio volto». Perché il vostro volto, Signore, è per noi la salvezza, secondo quest’altro versetto del Salmo 79: «Ostende faciem tuam et salvi erimus», «Fa’ splendere il tuo volto e saremo salvi». Il salmo si conclude su questa promessa di Dio: lo riempirò di giorni e gli farò vedere la mia salvezza. Salmo mirabile che termina la giornata del monaco, preparandolo a fare ingresso nella notte, portatrice del Volto di Dio.

[Dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), Psaume 90: le combat spirituel, in Itinéraires, n. 281, marzo 1984, pp. 90-101, poi in Benedictus. Écrits Spirituels. Tome I, Éditions Sainte-Madeleine, Le Barroux 2009, pp. 346-357, trad. it di fr. Romualdo Obl.S.B.]

giovedì 10 marzo 2011

La Quaresima alla scuola di san Benedetto

Anche se è vero che la vita del monaco deve avere sempre un carattere quaresimale, visto che questa virtù è soltanto di pochi, insistiamo particolarmente perché almeno durante la Quaresima ognuno vigili con gran fervore sulla purezza della propria vita, profittando di quei santi giorni per cancellare tutte le negligenze degli altri periodi dell’anno. E questo si realizza degnamente, astenendosi da ogni peccato e dedicandosi con impegno alla preghiera accompagnata da lacrime di pentimento, allo studio della parola di Dio, alla compunzione del cuore e al digiuno. Perciò durante la Quaresima aggiungiamo un supplemento al dovere ordinario del nostro servizio, come, per esempio, preghiere particolari, astinenza nel mangiare o nel bere, in modo che ognuno di noi possa di propria iniziativa offrire a Dio “con la gioia dello Spirito Santo” qualche cosa di più di quanto deve già per la sua professione monastica; si privi cioè di un po’ di cibo, di vino o di sonno, mortifichi la propria inclinazione alle chiacchiere e allo scherzo, e così attenda la santa Pasqua nella gioia del più intenso desiderio spirituale. Ma anche ciò che ciascuno vuole offrire personalmente a Dio dev’essere prima sottoposto umilmente all’abate e poi compiuto con la sua benedizione e approvazione, perché tutto quello che si fa senza il permesso dell’abate sarà considerato come presunzione e vanità, anziché come merito. Perciò si deve far tutto con l’autorizzazione dell’abate.

[Regula Sancti Benedicti, XLIX]

martedì 8 marzo 2011

Per la Quaresima: il digiuno

Riguardo alla misura dei digiuni, non è facile stabilire una regola uniforme, che tutti possano osservare, perché non tutti hanno la stessa resistenza fisica, né si può praticare il digiuno, come le altre virtù, con la sola inflessibilità dell'animo. E proprio perché il digiuno non dipende solo dalla forza interiore, ma anche dalle capacità del corpo, abbiamo ricevuto su questo punto dalla tradizione la seguente regola: i tempi, la quantità e la qualità dell'alimentazione devono variare in rapporto alla diversità di condizione fisica, di età e di sesso, ma per quanto riguarda la virtù interiore della continenza l'obbligo di mortificarsi è uguale per tutti. Non tutti, infatti, possono prolungare i digiuni per intere settimane, né rinviare il pasto restando tre giorni, o due, senza mangiare. Molti, anzi, indeboliti dalla malattia o dalla vecchiaia, non riescono a sostenere il digiuno neppure fino al tramonto del sole, se non con grande pena e fatica.

Non bisogna valutare la perfezione della continenza soltanto in base ai tempi e alla qualità dell'alimentazione, ma prima di tutto in base al giudizio della propria coscienza. Ciascuno, infatti, deve imporsi una regola di frugalità proporzionata alle esigenze della lotta che deve combattere contro il proprio corpo. È senz'altro utile e assolutamente necessario osservare i digiuni fissati dalla regola, ma se il pasto che li segue non è frugale, non si potrà raggiungere lo scopo per cui li si pratica, cioè l'integrità. Infatti, i lunghi digiuni seguiti da pasti abbondanti affaticano il corpo per un certo tempo, ma non gli permettono di acquisire la purezza della castità. L'integrità della mente è strettamente connessa al digiuno del ventre, e chi non sarà disposto a custodire ininterrottamente una regola uniforme di astinenza, non riuscirà a mantenere per sempre la purezza della castità. Anche i digiuni più austeri, se sono seguiti da un rilassamento eccessivo, diventano inutili e ci fanno subito cadere nel vizio dell'ingordigia. È preferibile un'alimentazione ragionevole e moderata ogni giorno, anziché un lungo e austero digiuno una volta ogni tanto. Un'astensione dal cibo praticata senza misura non solo può compromettere l'equilibrio della mente, ma, con l'affaticamento del corpo, finisce per infiacchire e privare della sua forza anche la preghiera.

[Giovanni Cassiano, Le istituzioni cenobitiche, V,1-2 e V,9]

sabato 5 marzo 2011

Nihil Operi Dei praeponatur

La liturgia sarà sempre al primo posto delle opere per mezzo delle quali i figli di san Benedetto si sforzano di stabilire nelle anime il regno di Cristo. Non mi riferisco, in questo caso, al suo influsso spirituale né al suo ruolo in quanto preghiera indirizzata a Dio in nome del popolo cristiano.
La sua celebrazione solenne è di per sé stessa un potente mezzo d’azione sugli uomini. Quando essa è eseguita in maniera irreprensibile, quando tutte le arti di cui è la sintesi meravigliosa le prestano il loro soccorso, e quando i canti e i riti sacri aggiungono alle magnificenze della chiesa monastica l’anima che la fa vivere, essa produce un effetto grandioso al quale nessuno saprebbe sottrarsi. Le bellezze di cui ella riveste il pensiero religioso la manifestano con una luminosità e una grandiosità che l’aiutano in maniera singolare a illuminare i cuori e a fortificare le loro convinzioni cattoliche. La sua misteriosa eloquenza ha la semplicità del Vangelo; essa è alla portata dell’uomo del popolo e allo spirito più coltivato.
In tal guisa la liturgia diventa lo spettacolo religioso per eccellenza, di cui una nazione che vuole rimanere cristiana non saprebbe mai fare a meno. Le predicazioni le più eloquenti, la musica la più elevata, le riunioni preparate con il maggior zelo e intelligenza, non potranno sostituirla impunemente. Perciò si potrà giudicare il vigore del sentimento cristiano in un paese mediante lo spazio che viene dato alle solennità liturgiche. Da dove proviene la superiorità religiosa del Medioevo, il quale, malgrado i suoi limiti incontestabili, ha visto l’apogeo dello sviluppo sociale della vita cristiana? Come ha rivelato principalmente la sua linfa esuberante se non per mezzo della liturgia? Le prose, le sequenze, gli inni, i canti, le feste che ci ha tramandato, le sue magnifiche chiese ancora visibili e i resti della sua oreficeria conservati nei nostri musei, lo dicono in maniera eloquente. Testimoni innumerevoli narrano ancora nei loro scritti la felicità e la fedeltà con le quali i principi e i popoli seguivano gli uffici divini; e la storia attesta che la diminuzione e la diserzione della lode al Signore precede e accompagna sempre l’abbassamento pubblico del senso cristiano.

[Dom Jean-Martial Besse O.S.B. (1861-1920), Le moine bénédictin, Librairie de l'Art catholique, Parigi 1921, pp. 182-183, trad. it di fr. Romualdo Obl.S.B.]