venerdì 29 ottobre 2010

D.N. Iesu Christi Regis

[Avvicinandosi la solennità di Cristo Re, che nella forma straordinaria del Rito romano si celebra l'ultima domenica di ottobre, riproduciamo la presentazione che ne offre dom Prosper Guéranger O.S.B. (1805-1875) nell’opera L’anno liturgico]

Due feste della regalità di Cristo

Trovammo già all’inizio dell’Anno Liturgico una festa della Regalità di Cristo: l’Epifania. Gesù, nato da poco, si manifestava ai Re dell’Oriente e al popolo d’Israele come «il Signore, che tiene nella sua mano il regno, la potenza, l’impero» (Introito della Messa dell’Epifania). Accogliemmo allora «il Salvatore, che veniva a regnare su di noi» (ibidem) e con i Magi gli offrimmo i nostri doni, fede e amore.
Perché la Chiesa al declinare dell’Anno Liturgico ci fa celebrare un’altra festa della Regalità di Cristo, della sua regalità sociale e universale?
Il giorno dell’Epifania noi abbiamo conosciuto la natura della regalità, non meno della dignità del neonato Bambino. Ma, forse, ci siamo lasciati affascinare dalla stella che, brillando nel cielo di Betlemme, ci recava la luce della fede e ci faceva sperare più vivo splendore per l’eternità. Cantammo allora la venuta dei gentili alla fede nella persona dei Magi, giunti dal lontano Oriente ai piedi del Re dei Giudei.

Il laicismo

Oggi la Chiesa ci fa riflettere sulle conseguenze della chiamata universale alla fede in Cristo. Le nazioni si sono convertite nel complesso al Signore, che con le conoscenze soprannaturali ha portato loro i benefici di una civiltà sempre ignorata dal mondo antico. Purtroppo, ormai da due secoli, un errore perniciosissimo tutte le rovina […]: il Laicismo. Consiste nella negazione dei diritti di Dio e di nostro Signore Gesù Cristo sulla società umana, sia privata e familiare che sociale e politica. Gli apostoli della nuova eresia […] con l’abilità, la tenacia e l’audacia dei figli delle tenebre si sono sforzati di cacciare Cristo da ogni luogo, […] e hanno infine dichiarato intangibili le loro leggi, facendo dello Stato un Dio.

Scopo della festa

Di fronte a «questa peste dei nostri tempi», i Papi hanno alzata la loro voce. Ma continuando la marea a crescere, Pio XI approfittò dell’anno giubilare, per ricordare in modo solenne al mondo, con l’enciclica Quas primas del giorno 11 dicembre 1925, il pieno e totale potere di Cristo, Figlio di Dio, Re immortale dei secoli, su tutti gli uomini e tutti i popoli, in tutti i tempi. Perché l’insegnamento tanto necessario non fosse troppo presto dimenticato il Papa istituì, in onore della universale regalità di Cristo, una festa liturgica, che fu ad un tempo solenne ammonimento e riparazione per l’apostasia delle nazioni e degli individui, che all’insegna del laicismo tende a manifestarsi nella dottrina e nella vita. In tale festa, per disposizione del Sommo Pontefice, si rinnova la consacrazione del genere umano al Sacro Cuore.
I fedeli trovano nel Breviario o, in modo più semplice, nel Messale l’insegnamento della Chiesa sulla regalità sociale di Cristo, insieme ad incomparabili formule di preghiera, di lode, di riparazione e di domanda da usarsi nella festa. Ma l’enciclica del Papa espone l’insegnamento in tutta la sua ampiezza e noi la riassumeremo, invitando a leggere il testo integrale, affinché, conosciuti i diritti del Signore, si respinga il veleno del laicismo e si vada con confidenza al Cuore di Gesù, che nella sua regalità è soltanto amore e misericordia.

La triplice regalità

I fedeli potranno vedere nella enciclica come Cristo è Re delle intelligenze, dei cuori e delle volontà; chi sono i sudditi di questo Re; il triplice potere che la regalità comporta e la natura spirituale della regalità stessa.
In senso metaforico si è stabilito da molto tempo l’uso di attribuire a Cristo il titolo di Re, per l’eccellenza ed eminenza delle sue singolari perfezioni, per le quali sorpassa tutte le creature. Ci si esprime così, per dire che egli è il Re delle intelligenze umane, non tanto per la penetrazione della sua intelligenza umana e della vastità della sua scienza, ma piuttosto perché è la Verità stessa e gli uomini devono cercare in lui la verità e da lui riceverla con sottomissione. Egli poi è detto Re delle volontà non solo perché alla santità assoluta della divina volontà corrisponde l’integrità e la sottomissione perfetta della sua volontà umana, ma anche perché, attraverso la mozione e l’ispirazione della grazia, sottomette la nostra libera volontà, facendo sì che il nostro ardore si infiammi per le azioni più nobili. Infine Cristo è Re dei cuori, a causa della sua carità, che sorpassa qualsiasi immaginazione, nonché della dolcezza e della bontà, che attirano le anime. Di fatto, nessun uomo fu mai amato, né lo sarà mai, come Cristo Gesù da tutto il genere umano.

Regalità, conseguenza dell’unione ipostatica

«Ma, per addentrarci di più nell’argomento, tutti possono vedere che il nome e il potere di Re spettano a Cristo nel senso proprio del termine. È nella qualità d’uomo che Cristo ha ricevuto dal Padre la potenza, l’onore, la regalità, perché il Verbo di Dio, che è consustanziale al Padre, tutto possiede in comune col Padre e, per conseguenza il potere sovrano e assoluto su tutte le cose... La Regalità di Cristo poggia sopra l’unione mirabile che vien detta unione ipostatica. Ciò posto, gli angeli e gli uomini devono adorare Cristo in quanto è Dio, ma devono obbedire a lui e manifestargli sottomissione anche in quanto uomo, cioè, per il solo motivo dell’unione ipostatica Cristo ha avuto potere su tutte le creature...».

Il triplice potere

«La regalità di Cristo comporta un triplice potere: legislativo, giudiziario, esecutivo. Senza questi poteri non si concepisce alcuna regalità. I Vangeli non solo ci assicurano che Cristo ha confermato delle leggi, ma ce lo presentano mentre stabilisce delle leggi... Gesù dichiara inoltre che il Padre gli ha concesso un potere giudiziario... e il potere giudiziario implica il diritto di decretare per gli uomini pene e ricompense anche in questa vita. Il potere esecutivo deve poi essere attribuito a Cristo, perché l’obbligo di obbedire ai suoi ordini è per tutti necessario, avendo egli stabilito pene alle quali nessuno che sia colpevole potrà sottrarsi».

Carattere della Regalità di Cristo

«Che la Regalità di Cristo sia spirituale e si riferisca soprattutto alle cose spirituali... il modo stesso di agire di Cristo l’ha confermato... Davanti a Pilato Gesù dichiarò che il suo regno non è di questo mondo e, nel Vangelo, questo regno ci è presentato come un regno nel quale ci si prepara ad entrare con la penitenza e si entra soltanto per la fede e per il battesimo. Il Salvatore inoltre oppone il suo regno soltanto al regno di Satana e alla potenza delle tenebre; chiede ai suoi discepoli non solo di distaccarsi dalle ricchezze e da tutti i beni della terra, di praticare la dolcezza, di aver fame e sete di giustizia, ma anche di essere pronti alle rinunce e di portare la croce. Se Cristo Redentore si è comprata la Chiesa a prezzo del suo sangue e Cristo Sacerdote si offre perpetuamente vittima per i peccati degli uomini, chi non vede che la sua dignità regale deve avere il carattere spirituale di queste due funzioni di Sacerdote e di Redentore?
Sarebbe tuttavia errore negare che la regalità di Cristo si estenda alle cose civili, perché egli ha ricevuto dal padre un dominio assoluto, tale che si estende a tutte le cose create, le quali tutte sono sottomesse al suo dominio».

Messa

Mentre in cielo gli Angeli e i Santi adorano l’Agnello immolato proclamandolo Re, noi ci raccogliamo nella Chiesa, per rinnovare il mistero della immolazione di questo Agnello e per proclamare anche noi la sua universale regalità nella vita individuale, familiare, sociale e politica, in terra e nell’eternità.
L’Epistola è un cantico vero e proprio in cui l’Apostolo san Paolo, rapito, proclama che cosa è Cristo per Dio, per la creazione e per la Chiesa. Il Padre è invisibile, abita in una luce, in una inaccessibile regione; ma ecco appare in mezzo a noi, perché si fa uomo come noi, versa il suo sangue per noi, Colui che è sua immagine, che è nato da Lui, che è Dio come Lui.
Dio: La creazione è opera sua, tutto per Lui sussiste, in Lui noi abbiamo vita, il movimento e l’essere, tutto esiste per Lui.
Capo della creazione, è capo ancora della Chiesa, che è il suo corpo, la sua Sposa. Tra essi vi è unità di vita e la vita egli l’ha nella pienezza e la pienezza si dispensa senza esaurirsi. Viene da Lui ogni bellezza, viene da Lui ogni santità, come dalla sua sorgente.
Il Padre lo volle così, nel suo disegno volto a ricondurre tutte le cose all’unità primitiva e a pacificare, nel sangue del suo Figlio, tutto quanto esiste in cielo e in terra.

Epistola (Col 1,12-20). - Fratelli: Ringraziamo Dio Padre, il quale ci ha fatti degni di partecipare alla sorte dei santi nella luce, e, liberandoci dall’impero delle tenebre, ci ha trasportati nel regno del suo diletto Figlio, nel quale, mediante il suo sangue, abbiamo la redenzione e la remissione dei peccati. Egli è l’immagine dell’invisibile Dio, il primogenito di tutte le creature, perché in lui sono state fatte tutte le cose, in cielo e in terra, visibili e invisibili, i Troni, le Dominazioni, i Principati, le Potestà; tutto è stato creato per mezzo di lui e in vista di lui. Egli è avanti a tutte le cose e tutto sussiste in lui. Egli è il capo del corpo della Chiesa, lui che è il principio e il primogenito tra i morti, in ogni cosa, affinché sia il primo. Infatti piacque (al Padre) che in lui abitasse ogni pienezza (della divinità) e, facendo la pace mediante il sangue della sua croce, per mezzo di lui ha voluto riconciliare con sé tutte le cose, quelle che sono sulla terra e quelle che sono in cielo, in Gesù Cristo, Nostro Signore.

Vangelo (Gv 18, 33-37). - In quel tempo: Pilato domandò a Gesù: Sei tu il Re dei Giudei? Gesù rispose: dici questo da te stesso, oppure altri te l’hanno detto di me? Disse Pilato: Sono forse Giudeo? La tua nazione e i grandi sacerdoti ti han messo nelle mie mani: che hai fatto? Rispose Gesù: Il mio regno non è di questo mondo; se fosse di questo mondo il mio regno, i miei ministri, certo, avrebbero combattuto perché non fossi dato nelle mani dei Giudei; ma il regno mio non è di quaggiù. Dunque tu sei Re? gli chiese allora Pilato. Gesù rispose: Tu lo dici, io sono Re. Sono nato per questo, e per questo sono venuto al mondo, a rendere testimonianza alla verità. Chi è per la Verità ascolta la mia voce.

Il dialogo tra Gesù e Pilato ci rivela il carattere spirituale e universale della Regalità del Messia, la sua origine e il suo fine: «Io sono nato e sono venuto nel mondo, per rendere testimonianza alla verità: chi è per la verità ascolta la mia voce». Commentando questo testo, sant’Agostino ci rivela il disinteresse e la bontà del nostro Re: «Che cosa era per il Signore essere re d’Israele? Era forse qualcosa di grande per il Re dei secoli diventare re degli uomini? Cristo non è re d’Israele per esigere tributi, per armare di ferro dei battaglioni e per domare visibilmente i suoi nemici, ma è re d’Israele per governare le anime, per vegliare su di esse nell’eternità, per condurre al regno dei cieli quelli che credono, che sperano, che amano».
Facciamo dunque vedere che siamo suoi sudditi dando a lui l’omaggio della nostra fede, della nostra confidenza e del nostro amore.
Meglio che nelle altre preghiere del santo sacrificio, nel Prefazio è proposta alla fede e alla pietà dei credenti l’esatta nozione teologica della regalità di Cristo. Come Figlio unico del Padre, al quale è coeterno e consustanziale, il Verbo incarnato comunica alla sua santa umanità, in virtù dell’unione ipostatica, la doppia unzione divina del Sacerdozio e della Regalità. «In virtù del sacrificio redentore sull’altare della Croce, come per la nascita eterna, egli sottomette al suo indistruttibile imperio tutte le creature in un regno di Verità e di vita, di santità e di grazia, di giustizia, di amore, di pace» (P. de la Brière, Études, t. 186, p. 358).

Prefazio - È cosa davvero degna e giusta, equa e salutare renderti grazie in ogni tempo e in ogni luogo, o Signore santo, Padre onnipotente, Dio eterno, che ungesti con l’olio della letizia il tuo unico Figlio, nostro Signore Gesù Cristo, Sacerdote eterno e Re dell’Universo, perché immolando se stesso sull’altare della Croce, ostia immacolata e pacifica, compì il mistero sacro della redenzione dell’uomo e, sottomesse al suo impero tutte le creature, procurò alla tua immensa maestà un regno eterno e universale, regno di verità e di vita, regno di santificazione e di grazia, regno di giustizia, di amore e di pace. Per questo...

Preghiamo - O Dio onnipotente ed eterno che volesti restaurare ogni cosa nel tuo diletto Figlio, Re dell’universo, fa’ che tutte le famiglie del mondo, disgregate a causa del peccato, si sottomettano alla sua soavissima autorità.

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mercoledì 27 ottobre 2010

Le Barroux: quaerere Deum

[Nel numero di novembre 2010 del mensile il Timone (anno XII, n. 97, pp. 22-24) è comparso un articolo sul monachesimo benedettino e l'abbazia Sainte-Madeleine di Le Barroux. Ne riproduciamo di seguito la versione originale e integrale, più ampia di quella andata in stampa]

«Ascolta, figlio, gli insegnamenti del tuo maestro, apri docile il tuo cuore, accogli volentieri i consigli del tuo padre». Con queste parole di sapore schiettamente biblico – che evocano immediatamente l’«Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore» (Dt 6,4) – si apriva quindici secoli fa la grande porta di santità della Regola dei Monasteri di san Benedetto (480 ca.-547 ca.); un libro di dimensioni tutto sommato ridotte – composto da un prologo e da 73 densi capitoli – che avrà tuttavia il destino e la gloria di contribuire grandemente a imprimere un carattere radicalmente cristiano al mondo occidentale, allora in una fase di grandi rivolgimenti e di cambiamenti epocali, per certi versi non del tutto dissimili da quelli che proprio oggi ci troviamo a vivere.
Della figura gigantesca di san Benedetto – non a caso proclamato, nel 1964, patrono d’Europa dal servo di Dio Paolo VI (1963-1978) – e della paternità spirituale della sua Regola – dalla quale occorre «ripartire», ebbe a dire il venerabile Giovanni Paolo II (1978-2005), «per la ricostruzione morale e religiosa che urgentemente ci sollecita» –, ci rimane certo il monumento letterario contenuto nel secondo libro dei Dialoghi di san Gregorio Magno (540 ca.-604), unica biografia contemporanea che sia stata realizzata del santo nato a Norcia e morto a Montecassino. Un ruolo, quello del patrono del monachesimo occidentale, ben messo in luce in un celebre panegirico del teologo Jacques Bénigne Bossuet (1627-1704), nel quale la sua Regola veniva descritta come «un condensato del cristianesimo, un dotto e misterioso sommario di tutta la dottrina del Vangelo, di tutte le istituzioni dei santi Padri, di tutti i consigli di perfezione».
«Sommario di tutta la dottrina del Vangelo», l’intera opera di san Benedetto realizza dunque pienamente il «per ducatum Evangelii» («sotto la guida del Vangelo»), ovvero l’appello che il santo lancia ai suoi discepoli a metà del prologo della sua Regola. Per fare questo, il santo patriarca si accinge – come scrive – a «istituire una scuola del servizio del Signore» («schola dominici servitii», RB prol. 45), per quel genere di monaci «cenobiti, ossia di coloro che vivono in un monastero e obbediscono a una Regola e a un abate» (RB 1,2).
Non è questa la sede per tracciare una storia del monachesimo – storia che avrebbe molto da insegnarci, e che ci offrirebbe l’opportunità di abbeverarci a fonti limpide di santità e spiritualità –, se non per annotare di sfuggita che la «scuola del servizio del Signore» istituita da san Benedetto si pone in diretta e consapevole continuità con un modello esemplare di vita cristiana – il monachesimo – che va dal padre del cenobitismo, san Pacomio (292-348), a san Giovanni Cassiano (360 ca.-435), che dopo un lungo soggiorno nei monasteri della Palestina e dell’Egitto, scrisse per i monaci d’Occidente delle opere pensate come progetto organico capace di trasmettere e di tradurre in un linguaggio accessibile l’esperienza e l’insegnamento dei Padri conosciuti in Oriente. Ma la linea è ancora precedente, se lo stesso Cassiano non esita a scrivere, nelle sue Conferenze ai monaci, che «la vita cenobitica ebbe il suo inizio al tempo della predicazione apostolica» (Conl. 18,5).
«Il monachesimo – scrive il più autorevole studioso vivente della letteratura monastica antica, dom Adalbert de Vogüé – è allo stesso tempo un movimento spirituale del passato e una via aperta nell’oggi all’anima che cerca Dio. Nato in un momento storico preciso, di cui porta l’impronta indelebile, risponde a un bisogno permanente e in qualche modo senza tempo».
Se quelle appena menzionate sono alcune delle coordinate storico-spirituali della figura di san Benedetto e del monachesimo di cui è patrono, trascorsi ormai quasi millecinquecento anni da quei felici esordi, quale attualità e quale richiamo dovrebbero trovare riverbero in noi, provenendo da quel mandato e lascito? Una felicissima risposta è contenuta in quello che, a vario titolo, possiamo considerare uno degli interventi magisteriali cardine del pontificato di Benedetto XVI, ovvero il discorso svolto in occasione dell’incontro con il mondo della cultura, a Parigi – al Collège des Bernardins –, del 12 settembre 2008, quando il Papa ha inteso parlare «delle origini della teologia occidentale e delle radici della cultura europea». Dopo essersi chiesto se la cultura monastica sia «un’esperienza che interessa ancora noi oggi, o vi incontriamo soltanto un mondo ormai passato», il Santo Padre ha ribadito la considerazione condivisa secondo la quale i monasteri sono stati i luoghi in cui venne «formata passo passo una nuova cultura». Benedetto XVI – profondamente legato alla figura di san Benedetto, com’è noto sin dal nome scelto una volta asceso al soglio pontificio – non si è però accontentato di prendere atto del fatto del «monachesimo creatore di civiltà», ma si è domandato più profondamente come ciò avvenne, qual era la motivazione delle persone, che intenzioni avevano, come hanno vissuto. La riflessione che Benedetto XVI ha svolto, a partire da tali quesiti, è del tutto cruciale, e solo apparentemente paradossale: «Innanzitutto e per prima cosa si deve dire, con molto realismo, che non era loro intenzione di creare una cultura e nemmeno di conservare una cultura del passato. La loro motivazione era molto più elementare. Il loro obiettivo era: quaerere Deum, cercare Dio. Nella confusione dei tempi in cui niente sembrava resistere, essi volevano fare la cosa essenziale: impegnarsi per trovare ciò che vale e permane sempre, trovare la Vita stessa. Erano alla ricerca di Dio».
Si potrebbe ritenere che il tempo attuale non consenta un’esperienza come quella sin qui tratteggiata, orientata in modo «escatologico», capace di costruire una realtà solida – e potenzialmente creatrice di civiltà – per mezzo di persone che dietro le cose provvisorie cercano il definitivo, animate da quel «désir de Dieu» («desiderio di Dio») reso celebre da un noto volume dell’erudito benedettino Jean Leclercq (1911-1993), che permette d’incontrare il Signore il quale ha «piantato delle segnalazioni di percorso, anzi, ha spianato una via, e il compito consiste nel trovarla e seguirla», come prosegue Benedetto XVI nel discorso al Collège des Bernardins.
Il viandante, il pellegrino, l’uomo e la donna, la famiglia, il gruppo giovanile, il religioso, il consacrato, l’inquieto – comunque l’essere umano nelle sue varie declinazioni, alla ricerca di Dio –, può invece incontrare ancora oggi tracce vive e feconde di questa avventura interiore, capace allo stesso tempo di collegare all’antico e nobile lignaggio delle tradizioni di quanti ci hanno preceduto, ma ultimamente e soprattutto al nostro vissuto dell’oggi, nell’orizzonte di Dio.
Se ne può fare l’esperienza molto concreta salendo la collina francese retrostante al villaggio provenzale di Le Barroux – non lontano da Avignone –, immersi in una natura rigogliosa di vigneti, albicocchi e oliveti. Qualche tornante fra gli alberi e una segnaletica via via rassicurante ci permettono infine di scorgere in leggera lontananza il profilo del campanile e della chiesa dell’abbazia benedettina Sainte-Madeleine, cui si arriva agilmente accompagnati dalle edicole votive e oratori che segnano il percorso, segno e anticipazione della devozione dei monaci che ancora non scorgiamo; anche i bambini in auto non mancheranno di riconoscere san Giuseppe con in braccio il piccolo Gesù mentre nasconde i ferri del mestiere dietro la schiena nella premura di non ferirlo, san Benedetto, o nel boschetto che delimita l’area dei posteggi – a modo suo enorme, segno loquace, per chi vi arriva la prima volta, del continuo afflusso di visitatori – la Madonna di Guadalupe, precisamente invocata dai monaci a guida e protezione delle famiglie, primo baluardo di ogni cristianità. Finalmente arrivati, un grande prato fiorito di lavanda ci anticipa il primo piano della grande abbazia, costruita in uno stile romanico che richiama l’austera solidità dei modelli architettonici cistercensi. Tutto ciò che ci circonda è allora un inseguirsi di sguardi, i quali suggeriscono e imprimono subito nell’anima una fortissima suggestione di spiritualità.
Ma non siamo giunti a un monumento storico da visitare in quanto turisti, tant’è vero che il luogo non prevede visite guidate di sorta. Siamo invece oggi, proprio noi, proprio qui, in una «schola dominici servitii», in un monastero abitato da una grande comunità di monaci benedettini, che ha deciso di sfidare il clima di secolarizzazione che attanaglia il mondo moderno, costruendo dal nulla – con la propria fatica e l’aiuto e il sostegno di numerosi fedeli e benefattori – un’abbazia, esattamente come fecero i nostri padri medievali, quale segno tangibile che un altro mondo è possibile.
Dell’abbazia Sainte-Madeleine di Le Barroux, le cui origini risalgono al 1970, quando l’esordio della fondazione aveva i suoi natali nel vicino villaggio di Bédoin, si può dire che sia il prolungamento della vita del suo fondatore e primo Padre Abate, il monaco benedettino dom Gérard Calvet (1927-2008), che così scriveva nel 1988, quasi anticipando alcuni degli argomenti espressi da Benedetto XVI nel discorso che abbiamo a più riprese menzionato: «I monaci hanno fatto l’Europa, ma non l’hanno fatta consapevolmente. La loro avventura è anzitutto, se non esclusivamente, un’avventura interiore, il cui unico movente è la sete. La sete d’assoluto. La sete di un altro mondo, di verità e di bellezza, che la liturgia alimenta, al punto da orientare lo sguardo verso le cose eterne; al punto da fare del monaco un uomo teso con tutto il suo essere verso la realtà che non passa. Prima di essere delle accademie di scienza e dei crocevia della civiltà, i monasteri sono delle dita silenziose puntate verso il cielo, il richiamo ostinato, non negoziabile, che esiste un altro mondo, di cui questo non è che l’immagine, che lo annuncia e lo prefigura».
L’irradiamento dell’abbazia Sainte-Madeleine non conosce sosta, si potrebbe dire da quarant’anni in qua. Lo testimonia il consistente numero di monaci – dal 2003 guidati dal successore di dom Gérard, l’attuale Padre Abate dom Louis-Marie Geyer d’Orth –, che nel 2002 hanno dato vita alla fondazione del priorato monastico Sainte-Marie de la Garde, nella diocesi di Agen; così, oltre alla cinquantina di cenobiti residenti a Le Barroux, una dozzina di loro fratelli hanno iniziato nel 2010 l’inizio dei lavori di costruzione di una nuova abbazia, replicando la sfida già intrapresa alcuni decenni prima in Provenza. E parimenti, proprio di fronte alla collina che ospita l’abbazia di Le Barroux, sulle orme di dom Gérard è venuta a installarsi la comunità monastica femminile Notre-Dame de l’Annonciation (nata nel 1979), che nel 1992 è stata eretta anch’essa in abbazia e oggi ospita una trentina di monache, guidate dalla Madre Abbadessa Placide Devillers.
Un irradiamento, quello di Le Barroux, che poggia sulle «tre colonne» concepite da dom Gérard come fondamento dell’avventura monastica da lui avviata nel lontano 1970, ovvero: una formazione intellettuale alla scuola della filosofia dell’essere d’impronta aristotelico-tomista; un’adesione senza riserve alla Regola di san Benedetto, intesa come elemento fondante stabile della nascente comunità, per la sua ricchezza, la sua universalità e la sua inesauribile capacità di adattamento; e la fedeltà alla preghiera liturgica nella forma straordinaria del Rito romano.
Quest’ultimo aspetto, in particolare – ossia il vincolo e la strenua difesa della Messa secondo il «rito antico», che da quarant’anni incanta le anime di quanti visitano questo monastero e alimenta la loro vita interiore –, ha permesso all’abbazia di Le Barroux di assumere un ruolo di rilievo nella riscoperta e diffusione della «liturgia gregoriana», come testimoniano i molti sacerdoti e membri di comunità di vita consacrata che si recano a Le Barroux per apprendere la corretta celebrazione di questa forma liturgica, con la quale il 24 settembre 1995 lo stesso cardinale Joseph Ratzinger celebrò nella chiesa abbaziale del monastero, presso il quale si era recato in visita.
In quest’ottica, il fedele che scruta la lunga teoria di monaci fare ingresso nella chiesa abbaziale di Le Barroux al seguito del Padre Abate – che giustamente richiama alla mente la «fortissima stirpe» descritta da san Benedetto nella Regola (1,13) –, sia che vi entrino per l’Ufficio divino cantato in gregoriano, sia che si accingano a celebrare i divini misteri, percepisce bene e in maniera indelebile la definizione data dal celebre abate di Solesmes, dom Prosper Guéranger (1805-1875), secondo il quale «la liturgia è la Tradizione stessa nel suo più alto grado di potenza e di solennità». E così facendo, intuisce la verità di quanto affermato da Benedetto XVI nel discorso già citato, ovvero che «ciò che ha fondato la cultura dell’Europa, la ricerca di Dio e la disponibilità ad ascoltarLo, rimane anche oggi il fondamento di ogni vera cultura».

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mercoledì 20 ottobre 2010

Auguri a sr. Bertilla Obl.S.B.

20 ottobre, Santa Maria Bertilla Boscardin, vergine

Gioia di Brendola (Vicenza), 6 ottobre 1888 - Treviso, 20 ottobre 1922

Martirologio Romano: A Treviso, santa Maria Bertilla (Anna Francesca) Boscardin, vergine della Congregazione delle Suore di Santa Dorotea dei Sacri Cuori, che si adoperò in ospedale per la salute dei malati nel corpo e nello spirito.

Nata nel 1888 in provincia di Vicenza, in una famiglia contadina, con l'aiuto del parroco, entrò nel 1905 nelle suore Maestre di Santa Dorotea Figlie dei Santissimi Cuori a Vicenza. Divenuta infermiera, lavorò nell'ospedale di Treviso, dove si dedicò a servire i malati nel corpo e nello spirito, infaticabile nell'aiutare le consorelle. Nonostante fosse stata colpita da un tumore a soli 22 anni, continuò con impegno il proprio lavoro, reso più faticoso dalle difficoltà e dalle tensioni della prima guerra mondiale. Mandata a Como, soffrì molto per l'incomprensione di qualche medico e della propria superiore senza mai lamentarsi o protestare. Tornata a Treviso, riprese il suo lavoro in ospedale nonostante l'aggravarsi della malattia. Morì a 34 anni, nel 1922. La sua grandezza spirituale sta nell'aver cercato nella fatica, nell'umiltà, nel silenzio, un'unione con Dio sempre più profonda. Le sue spoglie si trovano ora a Vicenza, nella Casa madre della sua comunità.

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"Io non so cosa sia 'gustare il Signore'. Mi basta essere buona a lavare i piatti e a offrire a Dio il mio lavoro. Di vita spirituale io non me ne intendo... La mia è 'la via dei carri'" (santa Maria Bertilla Boscardin).

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"Io e Dio solo, raccoglimento interno ed esterno, preghiera continua, questa è l'aria che respiro; lavoro continuo, assiduo, però con calma e in buon ordine. Io sono essere di Dio, Dio mi ha creata e mi conserva, ragione vuole ch'io sia tutta sua. Io cerco la felicità, ma la felicità vera la trovo solo in Dio... Devo fare la volontà di Gesù senza cercare nessuna cosa, senza volere niente, con allegrezza, con ilarità... Supplicare Gesù che mi aiuti a vincere me stessa, a capire quello che è bene e quello che è male, che mi aiuti e mi ispiri a fare ad ogni costo la Sua santa volontà, senza cercare proprio altro…" (santa Maria Bertilla Boscardin).


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"È un modello che non sgomenta... Nella sua umiltà ella ha definito la sua strada come 'la via dei carri', la più comune, quella del Catechismo" (Pio XII, 1952, in occasione della beatificazione).


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lunedì 18 ottobre 2010

L'uomo e l'invisibile

Poiché i riti sono carichi di un significato preciso e profondo, un loro cambiamento può far scoppiare una guerra, uno scisma o un’eresia.
Il rito è un pensiero in atto. È il pensiero umano incarnato in un gesto, capace di un’intensa forza d’espressione come della più squisita delicatezza mentale.
Si dimentica che i riti, frutti carichi della bellezza di una civiltà, travolti dal suo declino o sopravissuti talvolta come un fiore raffinato e fragile — pensiamo alla persistente e desueta etichetta di corte —, furono originariamente il grande poema, grossolano e selvaggio, di un’umanità infantile che ha danzato la sua teologia prima ancora di saper scrivere, come espressione visibile, attraverso la notte dei tempi, che proviene dai nostri lontani avi. Perché prima ancora di ricevere da loro qualche iscrizione, qualche affresco o graffito, scopriamo negli antichi riti funebri la prima testimonianza, davvero emozionante, di una credenza nell’aldilà: il defunto, le gambe piegate sul ventre, come un feto, è di nuovo affidato alla Madre Terra come un seme dell’eternità.
Poema in azione, straordinario strumento d’espressione religiosa, il rito s’impadronisce dell’intera esistenza umana e la fa rifluire verso la sua fonte. Non sono solo i riti funebri a esprimere questo ritorno, ma anche quelli della preghiera e del sacrificio, del pasto e dell’ospitalità, i riti legati alla nascita e al matrimonio, il culto verso gli dèi della Città, verso i genitori e la patria.
Nel libro L’uomo e l’invisibile, l’etnologo Jean Servier scrive: «I selvaggi non esistono. Gli uomini sono uguali come valore intellettuale e nel pensiero. Ci sembrano più curiosi dei beni invisibili piuttosto che dei beni di questo mondo, a dispetto di ogni determinismo geografico, economico, sociale o storico»; e ancora: «Tutte le proiezioni dell’uomo nel mondo portano il sigillo dell’invisibile. Le tombe sono più numerose delle case e i templi sono costruiti con criteri di solidità»; per poi concludere: «L’invisibile spiega l’uomo delle civiltà tradizionali come l’aria spiega l’uccello. La morte gli appare così familiare come il tramonto del sole, così pure è necessario il ciclo della sua redenzione quanto la sua nascita. L’iniziazione che subisce imprime nella sua carne il sigillo della Patria invisibile con riti identici da un capo all’altro dello spazio e del tempo, con un simbolismo sempre identico».
Lungo tutta la storia, questi riti manifestano con costanza il loro duplice carattere religioso e comunitario: il sociale era sacro. Lavorare o morire per la città era un atto religioso.
Per cogliere bene la nozione di liturgia, che ci sembra così familiare, bisogna percepire che le sue radici affondano in un terreno culturale antichissimo. Quando l’uomo della città antica s’incaricava di equipaggiare una nave da guerra, o meglio quando scriveva una composizione in onore degli dèi, come quella de I Persiani, nella quale Eschilo celebra la vittoria di Salamina, questa specie di prestazione pubblica al servizio dello Stato riceveva il nome di Leitourgia (da laos, popolo, ed ergon, opera) da cui deriva il termine «liturgia». Preso nella sua accezione originaria, il termine liturgia significa dunque sia carica, funzione sacra, ministero pubblico, e così si capirà meglio che la liturgia, è essenzialmente un atto sociale.
Eccoci prossimi a una definizione della liturgia; essa è, ci dice dom Prosper Guéranger, «l’insieme dei simboli, dei canti e degli atti secondo i quali la Chiesa esprime e manifesta la sua religione verso Dio». L’abate di Solesmes insiste: «(Essa) non è semplicemente la preghiera, ma la preghiera considerata come atto sociale» [1].
Nell’enciclica Mediator Dei Pio XII aggiunge una precisazione che mette in luce il ruolo regale e sacerdotale di Cristo in ogni atto liturgico: «La santa liturgia è il culto pubblico che il nostro Redentore rende al Padre come capo della Chiesa… è il culto integrale del Corpo mistico di Gesù Cristo, cioè del Capo e dei suoi membri».
Si potrebbero unire le due definizioni e racchiudere tutto in una formula che esalta l’unione nuziale di Cristo con la sua Chiesa. Si dirà allora che la liturgia è il canto dello Sposo e della Sposa.

[1] Istituzioni liturgiche, cap. 1.

[Dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), Le patrimoine de l'humanité, in Benedictus. Ecrits Spirituels. Tome I, Editions Sainte-Madeleine, Le Barroux 2009, pp. 236-239, trad. it. delle monache benedettine del Monastero San Benedetto di Bergamo]

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martedì 12 ottobre 2010

Un sacramentale "monastico": l'Agnus Dei

Si chiamano Agnus Dei piccoli medaglioni di cera bianca, fatti dai monaci cistercensi di Santa Croce in Gerusalemme, con la cera del cero Pasquale della Cappella Sistina, e delle altre Chiese di Roma. Questi medaglioni di forma ovale, hanno, da una parte l’effige dell’Agnello Pasquale, con la leggenda: Ecce Agnus Dei qui tollit peccata mundi, lo stemma e il nome del Papa che li ha benedetti e consacrati col Sacro Crisma; e dall’altra parte la rappresentazione della SS. Vergine o di un Santo.
La benedizione degli Agnus Dei ha luogo il primo anno del pontificato; poi successivamente ogni sette anni, o anche quando il Papa lo giudichi opportuno per i bisogni dei fedeli.
La Chiesa annovera gli Agnus Dei fra i Sacramentali. Importa dunque di tenerli con rispetto e venerazione. Si possono toccare, portarli sopra di sé, specialmente in viaggio o tenerli esposti in casa e così proteggono coloro che la abitano. Una minima parte ha la medesima virtù di un Agnus intero.
La Chiesa attribuisce agli Agnus una doppia virtù che corrisponde ai nostri bisogni spirituali e corporali. Ecco, secondo i Papi Urbano V, Paolo II, Giulio III, Sisto V e Benedetto XIV le proprietà riconosciute agli Agnus per quelli che ne fanno uso devotamente e con fiducia.
Gli Agnus conferiscono la grazia o la aumentano in noi, favoriscono la pietà, dissipano la tiepidezza, difendono dal vizio e dispongono alla virtù.
Cancellano i peccati veniali e purificano le macchie lasciate dal peccato dopo la remissione col Sacramento della Penitenza.
Mettono in fuga i demoni, liberano dalle loro tentazioni e preservano dall’eterna rovina.
Preservano dalla morte subitanea e improvvisa.
Impediscono lo spavento che incutono i fantasmi e calmano i terrori che cagionano i cattivi spiriti.
Muniscono dalla protezione divina contro l’avversità: fanno evitare i pericoli e le disgrazie, danno la prosperità.
Proteggono nei combattimenti e producono la vittoria.
Liberano dal veleno e dalle insidie del nemico.
Sono eccellenti preservativi contro le malattie e anche un rimedio efficace.
Combattono l’epilessia.
Impediscono la devastazione della peste, dell’epidemia e della corruzione dell’aria.
Placano i venti, dissipano gli uragani, calmano i turbini e allontanano le tempeste.
Salvano dal naufragio.
Allontanano i temporali e fanno evitare i pericoli del fulmine. Scacciano le nubi che portano la grandine.
Spengono gli incendi e ne limitano i guasti.
Sono efficaci contro le piogge torrenziali, lo straripamento dei fiumi e le inondazioni.
Infine gli Agnus Dei proteggono le mamme e i loro bambini nei pericoli speciali.


Mons. Barbier De Montault
Cameriere di Sua Santità

Imprimatur
Virduni, 21 die Novembris 1904
Lizet, vic. gen.

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mercoledì 6 ottobre 2010

Note sopra la liturgia

Negli Apophtegmata Patrum è detto come il demonio sia incapace di conoscere i nostri pensieri perché di un’altra natura dalla nostra, ma come egli possa indovinarli osservando i movimenti del nostro corpo. Di quella spia egli profitta per tenderci i suoi tranelli: donde l’importanza data in ogni tempo al comportamento esteriore e la spontanea venerazione per chi l’abbia perfetto. Costui, oltre a creare intorno a se stesso un anello di purezza inviolabile, sta in certo modo compiendo un esorcismo a beneficio di quanti gli sono prossimi. «Beato» dice san Francesco «quell’uomo che non vuole nei suoi costumi e nel suo parlare esser veduto né conosciuto se non è in quella pura composizione e in quello adornamento semplice del quale Iddio lo adornò e compose».
È comprensibile che un maestro spirituale insistesse presso i suoi discepoli sulla liturgia solitaria, atteggiamento del corpo durante l’orazione anche soltanto mentale, consigliasse di pregare in piedi, compiendo tutti i gesti prescritti, come in coro, «come se i fratelli assenti fossero presenti». E che un’educatrice di genio, Hélène Lubienska de Lanval, imponga prima di tutto ai bambini la recitazione di pochi versetti biblici accompagnata da taluni gesti e cerimoniali significativi: preparando il calco esteriore alla colata del contenuto che verrà più tardi: intellettuale prima, spirituale poi. Si sa di molte conversioni dovute alla predicazione, ma la scintilla può scoccare da un solo, perfetto gesto liturgico; c’è chi s’è convertito vedendo due monaci inchinarsi insieme profondamente, prima all’altare poi l’uno all’altro, indi ritrarsi nei penetrali del coro.
In un mondo nel quale l’uomo lentamente muore per mancanza non già di riverenza, come i filantropi vorrebbero indicarci, ma perché non sa più chi, non sa più che cosa riverire, un gesto simile può mutare una vita. E non appare strano, avendolo visto, che a santa Gertrude il Cristo sia apparso per la prima volta «nell’ora dolcissima di Compieta», mentre ella si rialzava da un inchino profondo col quale aveva riverito una monaca più anziana. Al posto di quella vide il «delicato giovinetto», «tale nell’aspetto quale allora la mia giovinezza sarebbe stata lieta di vedere anche con gli occhi del corpo». Con l’ultimo inchino sparirà forse da questa terra l’ultima vicenda degna di venerazione.
La liturgia è dunque il santo esorcismo. Santo e per così dire naturale. I gesti sacri lo sono anche in senso biologico, perché da tradizioni millenarie legati a numeri ai quali la vita dell’uomo arcanamente risponde: il tre, il sette, il dieci e così via. Uno studioso, Sambucy, ha notato come nella Messa siano contenuti gli atteggiamenti rituali più puri della contemplazione […], per esempio al Canone, allorché il sacerdote prega a braccia aperte e sollevate geometricamente, unendo i pollici agli indici; ma da noi si tende, incomprensibilmente, a trovare arbitrario, gratuito e sostituibile lo splendore di consimili gesti o la meravigliosa complicazione di certe regole cerimoniali: come quella, tutta ruotante intorno al numero tre e al mistico rapporto tra il cerchio e le rette (in modum circuli, in modum crucis), che informa, nella Messa solenne, la incensazione delle oblate. L’uomo così impegnato in gesti significativi adempie all’opus Dei non soltanto in senso sacro ma anche in senso naturale, affidando il respiro al ritmo infallibile del canto (che, con le lunghezze armoniosamente diseguali dei versetti, dilata e varia il giuoco del soffio nei polmoni) e lasciando che tutto il corpo ritrovi, in quella stretta e trascendentale disciplina, le sue leggi e i suoi numeri segreti. Lode davvero trinitaria, nella quale il corpo è fatto sentimento, il cuore pensiero e l’intelletto contemplazione.
Oggi si direbbe che quell’insano terrore che induce l’uomo ad aggredire la natura nel momento stesso che la fugge, lo spinga ad interrompere anche il grande esorcismo spirituale del gesto, introducendovi sempre più ciecamente cunei di vita profana: voci scomposte, ordini, illuminazioni inopportune, oggetti non rituali e, mostruosamente, il microfono, che rende grottesca la voce umana, assurde le tragiche vesti, anacronistico il gesto cerimoniale: giacché sarà sempre il nobile a pagare per il predone.

Liturgia è celebrazione dei divini misteri. È anche la grande esoterica del cattolico, che solo dopo una lunga frequentazione della liturgia terrena sarà in grado di presagire qualcosa della liturgia celeste. È, infine, desiderio di glorificare la divinità ricomponendo sulla terra, come stampate da un’ombra, le meraviglie del cielo: il giro degli astri, il succedersi delle stagioni, il mistero del tempo, l’itinerario della mente a Dio. Assistendo a una celebrazione liturgica solenne o anche soltanto a un Vespro bene ufficiato (è chiaro che parliamo e abbiamo parlato finora della tradizionale liturgia latino-gregoriana), si avrà l’impressione immediata di un moto astrale, di un’orbita celeste. E subito il Breviario lo conferma: piccolo libro zodiacale e cosmologico, currens per anni circulum, dove ciascuna ora canonica celebra una fase della luce, come negli Inni delle Piccole Ore, un momento della creazione del mondo, come negli Inni dei Vespri, o il graduale passaggio dalla notte al giorno, dal peccato all’illuminazione, come negli Inni dei Mattutini. Fin nelle ultime sfumature la varietà dei toni, le diverse cadenze musicali di uno stesso inno, salmo o responsorio a seconda del tempo liturgico, della solennità o della stagione (tonus vernalis, tonus hiemalis) – l’«immensa e delicata» liturgia mostra di ben portare il nome che le diede san Benedetto, opus Dei, giacché l’uomo non vi ha ruolo che di interprete delle grandezze di Dio e del creato. I suoi movimenti vi uniscono la lentezza maestosa delle ore con la levità della danza, mentre i paramenti, variando il loro colore, fissano all’occhio significati di morte, di risurrezione primaverile, di purgazione, di purpurea raccolta. Intorno all’immobile Sole-Cristo, Cristo stesso, nella persona del sacerdote, volge la Sua divina vicenda, e in essa coinvolge l’anno come il giorno, l’uomo in adorazione come lo stuolo dei Santi e delle Gerarchie Angeliche. Liturgia è dunque desiderio di circondare la divinità di immagini quanto possibile ad essa somiglianti, oltre che di parole da essa ricevute. Di restituire al Creatore, in virtù della Sua ispirazione, un estatico specchio della creazione. Gratias agimus Tibi propter magnam gloriam Tuam.
In un tempo nel quale l’uomo, preda di forze oscure, si industria di far esplodere la vita, stravolgendone tutte le leggi e rinunciando alla sua ultima destinazione, è particolarmente affliggente per lo spirito che anche nel meraviglioso santuario della liturgia tradizionale si aprano brecce, che anche questo sistema vacilli.

Liturgia – come poesia – è splendore gratuito, spreco delicato, più necessario dell’utile. Essa è regolata da armoniose forme e ritmi che, ispirati alla creazione, la superano nell’estasi. In realtà la poesia si è sempre posta come segno ideale la liturgia ed appare inevitabile che, declinando la poesia da visione a cronaca, anche la liturgia abbia a soffrirne offesa. Sempre il sacro sofferse della degradazione del profano.
La liturgia cristiana ha forse la sua radice nel vaso di nardo prezioso che Maria Maddalena versò sul capo e sui piedi del Redentore nella casa di Simone il Lebbroso, la sera precedente alla Cena. Sembra che il Maestro si innamorasse di quello spreco incantevole. Non soltanto lo oppose alteramente alla torva filantropia di Giuda che, molto tipicamente, ne reclamava il prezzo per i poveri: «Avrete sempre i poveri, ma non avrete sempre me» – parola terribile che mette in guardia l’uomo contro il pericolo delle distrazioni onorevoli: Dio non c’è sempre e non rimane a lungo e quando c’è non tollera altro pensiero, altra sollecitudine che Se stesso – ma addirittura replicò quel gesto la sera dopo, quando, precinto e inginocchiato, lavò con le Sue mani divine i piedi dei dodici Apostoli, allo stesso modo che Maddalena, scivolando tra il giaciglio e il muro, aveva lavato i Suoi. Dio, come osservò uno spirito contemplativo, si ispira volentieri a coloro che ispira.
«E l’odore si sparse per l’intera dimora». Il nardo di Maria Maddalena profuma l’intera liturgia cristiana, più ancora del nardo soave della Sulamita, del quale tanto si parla nelle Ore di Nostra Signora, tutte intrise di aromi e di fiori. Al nardo viene giusta mente comparato l’incenso, che ha il potere di disperdere l’angoscia del respiro e si leva al cospetto di Dio de manu Angeli. L’incenso è inesprimibilmente misterioso. Esso è insieme preghiera e qualcosa di più fine, più acuto della preghiera. Compone l’aroma dell’eros con quello della rinuncia, è resa di grazie ed è, come il nardo, alcunché di soavemente ferale. «Ella mi prepara per la mia sepoltura» disse il Salvatore con quell’accento che nessuno, intorno a Lui, penetrava. Nemmeno Maddalena comprese, naturalmente. Ma quando, tre giorni dopo, venne al Sepolcro con altri balsami, in cerca del corpo venerato, esso non era più là. Come sempre non l’utile aveva servito alla vera celebrazione ma il superfluo: non l’azione ma la liturgia dell’azione. La vera imbalsamazione del Corpo del Signore era già avvenuta al banchetto, e insieme anche la sola unzione regale e sacerdotale che Egli mai ricevesse su questa terra. E più ancora: un principio di sacramento, giacché il corpo ch’ella così preparava era già l’«ostia pura, ostia santa, ostia immacolata» pronta all’offerta; e il suo bisogno di toccarlo, intriderlo di profumi e di lacrime, tergerlo con ciocche di capelli, fondersi in qualche modo con esso, qualcosa di molto simile a una comunione. Inesauribile è il gesto di Maddalena, e in realtà Cristo affermò che per sempre ci si sarebbe ricordati di esso. Ciò che lo rende inesauribile è appunto la sua gratuità: tutti i poveri della terra non potrebbero pretendere a una dramma sola di quel nardo, come tutti i poveri della terra non potrebbero pretendere a un solo grano d’incenso bruciato al cospetto di Dio con cuore ardente. Nel Mattutino del Grande Sabato del rito bizantino si cantano, rivolte a Giuda, queste parole:
«Se sei l’amico dei poveri e ti rattristi dell’effusione di un balsamo per la consolazione di un’anima, come hai potuto vendere la luce a prezzo d’oro?».
La complessità del gesto di Maddalena ne fa, come abbiamo detto, qualcosa che da liturgico diviene in qualche modo sacramentale. Ma si potrebbe ricordare, prima ancora del suo gesto, quello non meno ineffabile, se anche più semplice, dei saggissimi Magi. I quali, partiti alla ricerca di un fanciullo bisognoso di tutto, non gli recarono latte né panni ma le insegne della Sua triplice dignità di Profeta, di Sacerdote e di Re. Così mostrando che neppure Dio stesso, quando si mostri a noi perfettamente povero, ci dispensa dalla celebrazione simbolica della Sua gloria, quale è rappresentata dalla liturgia; e che questa, pur nel suo incessante attuarsi, rimane per eccellenza un’operazione contemplativa. Di una delicatezza e di una gravità che rendono, più che rischiosa, mortale ogni arbitraria modificazione.

[Vittoria Guerrini (1923-1977), Note sopra la liturgia, originariamente comparso con lo pseudonimo Bernardo Trevisano, in Cappella Sistina, luglio-settembre 1966, pp. 99-102, ripubblicato in Cristina Campo [pseudonimo di Vittoria Guerrini], Sotto falso nome, Adelphi, Milano 1998, pp. 129-135]

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martedì 5 ottobre 2010

Il primato della contemplazione

Grazie al suo valore contemplativo, la tradizione liturgica, fedele alla teologia di san Giovanni, di san Paolo e dei Padri della Chiesa offre un rimedio permanente di fronte alle forze di disintegrazione da cui il cristianesimo è minacciato a partire dal Rinascimento.
Il male essenziale del Rinascimento non è, come si fa credere per meglio giustificarlo, il ritorno al paganesimo dell’antichità, ma il fermento del naturalismo che implicava questa pseudo-restaurazione. Giacché c’è una grande differenza tra l’universo religioso del mondo greco-romano, dove sussistevano delle intere parti di religione integra, di pietà intatta, dove gli dei sfioravano l’esistenza umana con una facilità e un candore insuperabili, e il mondo religioso centrato sull’uomo che il Rinascimento portava in grembo. I misfatti del naturalismo, inoculati nelle vene di una religione rivelata, sono altrettanto pericolosi quanto le incertezze di una religione cieca di fronte alla venuta di Cristo. Contro la tentazione al naturalismo, la preghiera liturgica propone un grande rimedio: il primato della contemplazione. L’orientarsi verso la luce, la contemplazione filiale e ammirata di Dio fatta di rispetto e amore, tracciano i limiti di una spiritualità antica. Di fronte al naturalismo incurvato su sé stesso, l’ordine liturgico oppone un lungo discorso sulla santità, sulla bellezza e sulla grandezza di Dio. Il pigmeo delle culture tecniche si meraviglia di ciò che produce; guarda le realizzazioni della sua mente, di là il suo sguardo si abbassa sugli utensili, sulle sue mani, e talvolta — Dio ci perdoni — sul suo ombelico. Allora la santa Chiesa lo raddrizza, lo mette in preghiera; attraverso la grazia della liturgia eccolo che si dimentica, si disinteressa un po’ di sé stesso, delle sue mani e anche delle sensazioni del suo cuore; eccolo che guarda e canta la gloria di qualcun altro: «Laudamus Te, benedicimus Te, adoramus Te, glorificamus Te, agimus Tibi propter magnam gloriam Tuam!» [1].
La santa Chiesa, prima contemplativa, lascia passare senza fermarla la forza di una luce che ferisce i suoi occhi malati; le fa intendere, attraverso stupende letture, i segreti del suo illustre destino che è quello di fare un tutt’uno con Dio; lasciandolo poi accecare davanti alla sua vocazione, pone sulle sue labbra il balbettio profetico di Geremia [2], questo alleluia senza parole attraverso cui si comprende che il canto liturgico non è che giubilo, risposta estatica alle promesse di Dio senza che ci possa essere alcuna traduzione: «È per questo — dice sant’Agostino — che colui che giubila non si esprime a parole, ma con suoni gioiosi senza parole: è la voce dello spirito perso nella gioia, che si esprime con tutte le sue capacità, ma non arrivando mai a definirne il senso […]. E a chi giova questo giubilo se non al Dio ineffabile? Ineffabile è in effetti ciò che non si riesce a esprimere, ora se tu non puoi e non devi tacerlo, che cosa ti resta se non di esultare perché il tuo cuore si allieti senza parole e perché l’immensità della tua gioia non conosca limiti di sillaba?» [3].
Non s’insisterà mai troppo, in una cultura segnata dal dominio dell’utile e di ciò che è redditizio, sul ruolo educatore della liturgia: assorbita dalla visione dell’eterno, e interessata a iniziare i suoi fedeli alla gratuità, al canto e all’estasi, li condurrà fino al luogo dove si cancella ogni espressione verbale per amare, lodare e adorare in silenzio «la Bellezza che chiude le labbra».


[1] È da sottolineare il fatto che il testo sacro orienti l’azione di grazia dei fedeli, prima verso il bene che è in Dio stesso. È così che la liturgia esercita l’anima a dimenticarsi, a perdersi di vista.

[2] «Risposi: Ahimè, Signore Dio, ecco io non so parlare, perché sono giovane» (Ger 1,6).

[3] Sant’Agostino, Esposizione sui Salmi, 99,4; 32,1-8.



[Dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), Le primat de la contemplation, in Benedictus. Ecrits Spirituels. Tome I, Editions Sainte-Madeleine, Le Barroux 2009, pp. 242-244, trad. it. delle monache benedettine del Monastero San Benedetto di Bergamo]

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