mercoledì 30 giugno 2010

Sainte-Marie de la Garde

In una precedente pagina ci siamo già occupati del monastero Sainte-Marie de la Garde, la comunità di monaci benedettini inviati in fondazione, nel 2002, dall’abbazia Sainte-Madeleine di Le Barroux e installatasi sul luogo di un’antica fortezza medievale.
L’11 aprile 2010 il vescovo di Agen, S.E. mons. Hubert Herbreteau, ha presieduto la cerimonia di benedizione della prima pietra del nuovo monastero (foto a sinistra), i cui lavori di edificazione avranno inizio il 5 luglio 2010: si vedano le informazioni e vari servizi fotografici nel n. 3 (maggio 2010) de La lettre du chantier de Sainte-Marie de la Garde.
In occasione di un viaggio a Nantes, il 6-7-8 marzo 2010, dell'abate di Le Barroux, dom Louis-Marie Geyer d'Orth O.S.B., è stato diffuso un estratto di pochi minuti relativo alla fondazione di La Garde, tratto da un documentario realizzato da Wenceslas Nourry. Riproduciamo di seguito tale estratto video.





lunedì 28 giugno 2010

La bellezza della liturgia

[Del tutto recentemente abbiamo offerto l'estratto di un libro del monaco benedettino Dom François Cassingena-Trévedy, auspicandone la pubblicazione integrale da parte di qualche editore sensibile e lungimirante. Contemporaneamente, la rivista Cristianità. Organo ufficiale di Alleanza Cattolica, ha pubblicato nell'ultimo fascicolo (anno XXXVIII, n. 356, Piacenza aprile-giugno 2010, pp. 67-70) una recensione di Stefano Chiappalone a un precedente studio di Dom Cassingena-Trévedy, La bellezza della liturgia (trad. it., Edizioni Qiqajon, Magnano 2003, pp. 118). Con l'autorizzazione della rivista Cristianità pubblichiamo l'integralità di questo importante articolo.]


In diverse occasioni Papa Benedetto XVI ha indicato come modelli della liturgia gli angeli e, di conseguenza, quanti vivono continuamente alla presenza di Dio — come queste creature celesti — celebrando incessantemente la liturgia con la loro stessa vita: i monaci. Ed è proprio un monaco benedettino a mostrarci ciò — anzi, Colui — che allo stesso tempo si nasconde e si rivela nei divini misteri. L’autore, padre François Cassingena-Trévedy, di nazionalità francese ma nato a Roma nel 1959, si è laureato in Filologia all’École Normale Supérieure di Parigi nel 1980 e nel medesimo anno ha abbracciato la vita monastica. Ordinato sacerdote nel 1988, l’anno seguente si è laureato in Teologia presso l’università di Friburgo, in Svizzera. Attualmente risiede nell’abbazia di Saint-Martin de Ligugé, presso Poitiers, in Francia, dove svolge l’ufficio di maestro dei novizi. Studioso di discipline liturgiche e patristiche, in particolare dell’opera di sant’Efrem il Siro (306-373) — che ha curato per conto delle Sources Chrétiennes —, insegna all’Institut Catholique de Paris ed è autore di numerosi saggi e libri, fra i quali La liturgie, art et métier e Te igitur. Autour du Missel de S. Pie V (entrambi editi da Ad Solem, Ginevra 2007) e Les Pères de l’Eglise et la liturgie (DDB. Institut Catholique de Paris, Parigi 2009).
Il saggio Jalons pour un esthétique de la liturgie, apparso nel n. 116, del 2001, della rivista Liturgie della Commission Francophone Cistercienne, viene pubblicato autonomamente in traduzione italiana con il titolo La bellezza della liturgia, che, prima di qualsiasi ulteriore valutazione, è sostanzialmente la bellezza di Cristo, «il più bello tra i figli dell’uomo» (Sal 45 [44], 3).
Già nella Premessa (pp. 7-11) l’autore chiarisce che solo a partire da qui, andando alla radice della liturgia, possiamo aprirci alla sua vera essenza, superando il soggettivismo e la dittatura del gusto che talvolta accomuna i fautori delle più variegate tipologie di Messa: «Nell’era dei centri commerciali si va a cercare anche nel supermercato ecclesiale ciò che si trova di conveniente. Sottile e perfido ribaltamento dei fini. Quella che nei primi secoli del cristianesimo veniva chiamata opus Dei, l’opera di Dio, tende a diventare un genere di consumo tra tanti altri» (p. 9).
Nel primo capitolo emerge il nesso primordiale, essenziale, fra Liturgia e sacramentalità (pp. 13-22): la ragion d’essere della liturgia, infatti, «[...] è sempre legata a qualche sacramento, ogni volta è un sacramento quello che celebra, che accompagna, al quale fa da contesto» (p. 13); anche nel caso della liturgia delle ore, il cui stretto legame con la Messa non fa che continuarne instancabilmente la celebrazione. Ma prima ancora dei singoli sacramenti vi è la «sacramentalità fondamentale e antecedente» (p. 15), la «sacramentalità indifferenziata, primitiva» (p. 16) data dalla presenza operante e attiva di Cristo.
Presenza operante e attiva, dunque, non vaga o parolaia, poiché la liturgia è fatta anche di parole, ma mai fini a sé stesse, sempre volte a conseguire un effetto concreto, in quanto — e siamo al secondo capitolo, Una cristologia del gesto (pp. 23-53) — legate indissolubilmente ai gesti fondamentali di Colui che è «[...] il Gesto di Dio verso di noi, Cristo. L’estetica liturgica si fonda su una cristologia del gesto» (p. 27). «Attraverso la celebrazione liturgica dei sacramenti e l’insieme dei gesti concreti che questa richiede, la chiesa non fa nient’altro che prolungare, attualizzare i gesti di Cristo» (pp. 28-29). Pertanto l’autore definisce la liturgia stessa come «[...] un bel gesto di Cristo che coordina a sé i nostri gesti» (p. 30). Il Canone Romano — o prex eucaristica — che parla di sanctas ac venerabiles manus, «mani sante e venerabili», e di praeclarum calicem, «glorioso calice», offre un compendio della bellezza e della maestà del gesto supremo di Cristo. Non si tratta però di una bellezza soltanto plastica, esteriore. «In questo caso Cristo non sarebbe stato l’unico a fare dei bei gesti. Dopo tutto l’arte statuaria della Grecia classica ne ha immortalati anch’essa parecchi, e di molto belli» (p. 34). Nei gesti di Cristo invece si manifesta una bellezza superiore che viene dall’alto — et elevatis oculis in caelum —, l’aisthetòn ultimo «[...] che si chiama Grazia, Salvezza, Amore, Vita» (p. 36) e non può prescindere dal lògos della croce che — stravolgendo e superando i nostri criteri — opera una vera e propria pasqua estetica: «Il Bello muore sulla croce, sfigurato, ed è proprio da quella morte che resuscita, paradossale, la vera bellezza; è proprio in quella morte che si manifesta la bellezza autentica» (p. 39). L’arte stessa per entrare nel santuario non può aggirare la vera Bellezza che scaturisce dalla croce, anzi deve lasciarsi permeare dalla logica della Pasqua, la logica suprema dell’Amore che la Chiesa presenta nella liturgia: «Le mani sono “sante e venerabili” proprio perché sono quelle dell’Amore, e il calice è “bello” molto semplicemente perché è l’Amore che lo prende in mano» (p. 45). Dal «bel gesto» di Cristo scaturisce anche un nuovo ordine per i nostri gesti, il loro tempo, il loro spazio, poiché «la liturgia è tutto lo spazio di cui Cristo ha bisogno per esprimersi, tutto il tempo che gli serve per raccontare se stesso» (p. 53).
Argomento del lungo capitolo successivo è L’ordine (pp. 55-108): fin dall’inizio della creazione vediamo un Dio che mette ordine e tanto nell’Antico quanto nel Nuovo Testamento viene continuamente ribadito il carattere gerarchico della liturgia, che realizza la connessione etimologica fra ornare e ordinare, e di cui la regola aurea enunciata da san Paolo offre un efficace compendio: «“Tutto avvenga decorosamente (euschemónos) e con ordine (katà táxin)” (1 Cor 14, 40)» (p. 61). Tale principio guiderà persino la risurrezione dei morti nell’ultimo giorno (cfr. 1 Cor 15, 22-23), poiché costoro in fondo risorgono al fine di celebrare una liturgia eterna. «Il mondo dei risorti, che si costituisce attorno a Cristo principio di vita, appare dunque come un mondo ordinato, e in quanto tale atto a eseguire quella liturgia concentrica, scaglionata in diversi livelli, che l’Apocalisse descrive» (pp. 62-63). I Padri della Chiesa insisteranno proprio sull’ordine e sull’armonia della liturgia, espressi nei ministeri, negli spazi, nei canti, nella dottrina. «Naturalmente ci sarà chi vorrà individuare, in questa costante attenzione dei padri all’ordine, un tratto caratteristico della loro cultura greca: libero di farlo; resta comunque il fatto che tale elemento si è incontrato con la rivelazione, che la chiesa l’ha assimilato in profondità, l’ha accolto, e che per noi non è più possibile prenderlo alla leggera sacrificandolo alle rivendicazioni dell’individualismo moderno, ordinariamente egualitaristico e anarchico, che del resto si è fatto strada solo in questi ultimi decenni, anche in ambito liturgico» (p. 73). La liturgia in realtà non fa che ristabilire quell’ordine primordiale, a cui ogni uomo tende naturalmente poiché è la cifra che lo stesso Creatore ha iscritto nella creazione.
Essa ordina innanzitutto il tempo, se ne appropria per riempirlo di significato, riproponendo attraverso i vari cicli — il ciclo delle ore diurne, l’anno liturgico e le feste dei santi — il mistero multiforme di Cristo e inculcandolo sempre più profondamente in noi mediante un movimento a spirale che concilia ciclicità e progresso, mediante «una sorta di rivoluzione copernicana attorno al mistero di Cristo» (p. 80), che conferisce così un senso a un tempo altrimenti in balia dell’assurdo.
La liturgia instaura e si appropria di un nuovo ordine anche nello spazio e nelle realtà materiali. Nella Gerusalemme celeste ci sono angeli agrimensori e geometri (cfr. Ap 21, 15ss.): «Che lo Spirito divino [...] sia anche Spirito di geometria?» (p. 83). In fondo Dio stesso afferma che non Lo si può incontrare nel caos senza forma (cfr. Is 45, 19) e la stessa creazione pertanto si configura come un kósmos di cui la chiesa è simbolo: «[...] essa comprende il divino santuario come un cielo, e in aggiunta a esso è disposto il corpo centrale dell’edificio (la navata) come una terra» (San Massimo il Confessore [580-662], cit. pp. 85-86). La liturgia chiama a raccolta e porta a compimento tutta la creazione, niente in essa ha una funzione puramente decorativa, anzi tutti gli elementi — pane, vino, acqua, fuoco e così via — del mondo diventano addirittura co-liturghi. «Altrimenti che senso avrebbero i salmi cosmici che recitiamo ogni giorno a coronamento delle lodi? [...] Qui si tocca con mano la facoltà simbolica della liturgia, non solo nel senso che essa utilizza le realtà del mondo sensibile come simboli, ma anche nel senso che essa “raccoglie” la creazione e la ricapitola» (pp. 88-89). In tal senso la liturgia è il vero «ecosistema», che inaugura l’equilibrio escatologico in cui ogni elemento troverà il proprio posto.
A maggior ragione questo nuovo ordine riguarda gli uomini e non è casuale il legame fra vocabolario liturgico e vocabolario militare, poiché il popolo di Dio non è «un popolo informe e caotico, malgrado le rivendicazioni egualitarie di un certo anarchismo ecclesiale» (pp. 91-92), che non tiene conto della necessità del battesimo e del sacerdozio ordinato, della struttura che Dio stesso ha voluto. «Insomma, la liturgia presuppone il sacramento dell’ordine, o l’ordine come sacramento» (p. 92), e questo si riflette inevitabilmente anche nel cuore del singolo uomo, instaurando un momento di pace e spostando il centro di gravità dall’io a Dio.
Infine nella liturgia, che è il luogo proprio dell’esegesi biblica, la Sacra Scrittura, suddivisa, organizzata e «attuata» attorno ai diversi misteri celebrati, rivela il suo mistico ordine, quell’ordine che a noi peccatori, lasciati al nostro senso «privato», rimarrebbe irrimediabilmente nascosto. Così come avviene per il tempo, lo spazio e l’uomo, la liturgia «[...] fa emergere la vera struttura e l’elemento formale di tale struttura, che è di ordine cristocentrico; essa organizza il corpo della rivelazione scritta attorno al suo asse: Cristo salvatore» (p. 102). È infatti in ambito liturgico che si è formato il canone della Scrittura — sia l’Antico sia il Nuovo Testamento —, che non è un libro morto da analizzare filologicamente dall’inizio alla fine, bensì da leggere in quello che il poeta francese Paul Claudel (1868-1955) definisce «l’enorme edificio della liturgia» (cit. p. 103) innalzato dalla Chiesa che, «[...] come un poeta straordinario, ha preso da ogni parte frammenti dei padri, della Bibbia, dei racconti agiografici, degli scritti poetici, per farne una costruzione viva nella quale sono impiegate armonicamente tutte le ricchezze dell’universo in un inno di gloria al Creatore» (ibidem). È il risultato di un ordine che ha a che fare con la bellezza, ma anche con il precetto, poiché «[...] non c’è liturgia autentica senza docilità intelligentemente scrupolosa alle rubriche» (p. 105) e «non esiste estetica liturgica che possa eludere il carattere normativo della liturgia» (ibidem).
«Ordine infine nel senso di ordinamento a un fine» (p. 106), cioè la perenne liturgia cui saremo chiamati nella Gerusalemme celeste, che in ultima analisi è l’epifania dell’Amore di Cristo, dalla cui iniziativa e non dalle nostre invenzioni scaturisce la vera bellezza. Questa infatti non è una bellezza qualunque, è La bellezza di Dio (pp. 109-114) e il suo splendore è tale da risultare in qualche modo «tremendo» (phriktós), da suscitare profonda impressione; e proprio da qui deriva il suo potenziale missionario, in quanto manifestazione di una Realtà che ci supera, e che tuttavia «[...] proprio allora, paradossalmente, diventa vicina» (p. 114).
Nelle pagine finali — Dove si intrufolano gli angeli (pp. 115-118) — l’autore raccomanda un particolare canone estetico che richiama molto da vicino quello spirito «angelico» della liturgia caro a Papa Benedetto XVI: l’ariosità. «Non ci sia nulla, in essa, di troppo sacrificato o di troppo pesante e opprimente, né i suoni, né la luce, né i protagonisti. Lasciamo alla Parola, alla preghiera, alle melodie, ai raggi di luce, all’incenso, il tempo e lo spazio per arrivare a un’abside e ritornare a un nartece, il tempo e lo spazio per toccare Dio e toccare l’uomo, il tempo e lo spazio per andare e tornare. Tutta la liturgia sta in questo va e vieni, in questo spazio aerato, questo respiro, questo interstizio dove s’intrufolano gli angeli» (p. 115).

venerdì 25 giugno 2010

Gli oblati benedettini / quarta parte

L'obbedienza

San Benedetto prescrive ai suoi religiosi di emettere il voto di obbedienza nelle mani dell'abate, conformemente alla Regola interpretata dalle sue costituzioni.
L'oblato non è ammesso a emettere questo voto. Egli si limita a praticare tale virtù, che si estende a tutti i suoi doveri di stato, nei quali egli ricerca l'espressione della volontà divina. L'oblato obbedisce - come ai rappresentanti del Signore - in famiglia, nella società, nelle sue mansioni, ai detentori di un'autorità legittima: "Qui vos audit, me audit", "chi ascolta voi ascolta me" [Lc 10,16], dice il Signore.
L'oblato si costituisce quale difensore del principio d'autorità, mantenendosi in guardia contro le teorie e i sistemi che lo sminuiscono. Egli cerca di conoscere le ragioni e i fatti che ne dimostrano la necessità e i benefici, allo stesso tempo in cui ne deduce le condizioni del suo legittimo esercizio. Fra tutte le autorità, l'oblato accorda una stima e una fiducia intera a quella che si esercita nell'ambito della Chiesa da parte del Sommo Pontefice e i membri della gerarchia ecclesiastica.
Per quanto riguarda la fede e l'organizzazione della vita cristiana degli individui o delle società, l'oblato si sforza di pensare quel che pensa la Chiesa, di volere ciò che ella vuole, di riprovare ciò che condanna; la Chiesa - l'oblato lo sa - si trova dov'è il Papa.

[Dom Jean-Martial Besse (1861-1920), Les Oblats de saint Benoît, opuscolo del 1918, poi in Itinéraires, n. 320, febbraio 1988, pp. 73-90 (qui pp. 84-85), trad. it di fr. Romualdo Obl.S.B. - 4 / continua]

mercoledì 23 giugno 2010

Il "quadrato liturgico"

[Da un libro piccino e prezioso di cui auspichiamo presto l'edizione in lingua italiana, opera di dom François Cassingena-Trévedy O.S.B., monaco di Ligugé, edito nel 2007 a Ginevra dalle edizioni Ad Solem, offriamo un estratto]

Introduzione - Manipolo

Un livre est là sur l’autel… [1]

Così parlava Paul Claudel [1868-1955], dal suo «esilio» di Rio de Janeiro. Era il 1917 e tornava da una Messa bassa, e ripensava a tutte le Messe basse della sua vita, profondamente inscritte, e scriveva la sua. Persino «laggiù», la Messa era la Messa. La medesima, «da una sponda all’altra del mondo», come la Pace che faceva discendere. La Messa sentita come un essere a casa propria. Un libro è là sull’altare… Ritratto del libro, ritratto del messale. In illo tempore. «A quei tempi…». Ma chi di noi, posto solamente che sia in età matura, non conserva ancora il ricordo di questo libro? Chi di noi non discende da questo libro, più o meno, per le strade di una genealogia complessa e inconfessata, come sono in genere le vere genealogie? Chi di noi, anche senza averlo profondamente conosciuto, non l’ha comunque visto, non l’ha maneggiato, non l’ha sentito, non l’ha spolverato della sua polvere d’oro, non ha accarezzato i suoi segnalibri di stoffa e poi non l’ha riposto con scrupolo indefinibile? Il libro, così superato, ci resterà dunque nel cuore? D’altra parte il libro non è affatto estinto, dal momento che ci si appassiona stranamente per lui o, più esattamente, attorno a lui. Si sarebbe potuto credere che con il tempo la passione si sarebbe estinta, e invece vediamo che rimane vivace e fa ufficialmente rumore. Ma la pubblicità che si dà a una polemica ricorrente negli ultimi tre decenni e a delle rivendicazioni assolutamente attuali fa stato, tutto sommato, solo di epifenomeni, di sintomi esterni, e sembra che gli stessi «appassionati» si sottraggano senza sosta a un’analisi lucida e radicale della loro passione: del resto non è la regola, tante volte verificata, che gli attori – o piuttosto i manifestanti – della storia si dimostrano incapaci di controllarla, anche quando credono di agitarla per il proprio verso, malgrado sia questa a trascinarli nel proprio?
Forse è proprio qui che si situa il compito del liturgista, di cui sappiamo che, lungi dal costituirsi entomologo di forme separate, si sforza di fare, attraverso il confronto documentato con il passato e l’intuizione ragionevole dell’avvenire, una lettura corsiva delle evoluzioni e delle fratture. All’occorrenza, ci si aspetta da lui che, lungi dall’appassionarsi lui stesso, si ponga a distanza rispettosa (diamo a questo termine tutta la sua dimensione umana) e che tenti l’analisi, non solo della passione nella superficialità delle sue espressioni o delle sue interpretazioni pubbliche, ma dell’affetto (nel senso psicologico e quasi clinico) di cui questa è molto più profondamente rivelatrice. Detto in altro modo, nel cuore del dibattito contemporaneo sulla Messa tridentina, o piuttosto al suo scaturire (rispetto e lucidità sono d’obbligo), la parola del liturgista è altamente auspicabile: basata in primo luogo sulla certezza propriamente teologale di un’analogia tra fede e azione liturgica (leitourgia) che attraversa la storia del popolo di Dio in marcia verso il suo Signore, e in secondo luogo su quelle scienze umane per cui ormai ha un istinto, la sua parola avrà il compito di essere insieme, modestamente, quella di uno storico e di uno psicologo, l’uno e l’altro ritrovandosi nella stessa funzione interpretativa superiore. Come ha fatto sin da principio, tale parola onorerà anche la dimensione estetica, o più esattamente poetica, del suo oggetto: la Messa laggiù di Claudel non ci ha fornito di primo acchito un manipolo estremamente adatto ad appropriarci del libro e, con questo, ancor più dell’attaccamento che suscita?

Capitolo I - Aspetti di una personalità

È fuor di dubbio che il messale scaturito dal Concilio di Trento [1545-1563] sia caratterizzato da una forte individualità. A questo proposito è legittimo evocare anche una sorta di personalità. Questa non inerisce solamente al fatto che il messale in questione abbia una precisa data di nascita (1570) e che sia strettamente associato negli animi – e nei fatti – a un uomo anch’egli dotato di una forte personalità [2], san Pio V [1566-1572], per quanto alla sua gestazione sia stato necessario mezzo secolo (1514-1563) e una commissione abbia lavorato per cinque anni alla sua elaborazione. Più in profondità, si tratta di una personalità acquisita, conferita e confermata dalla longevità di un uso storico che, in modo già simbolicamente significativo, copre quattro interi secoli (1570-1969): il messale di san Pio V è un’esistenza a sé, un’esistenza identificabile e di cui ci si può dire genealogicamente solidali. Allo stesso modo una personalità linguistica, perché s’impone nella sua latinità formalmente intraducibile [3] e che, dal punto di visto della storia e della civilizzazione, rappresenta un atto propriamente imperiale della romanità. Senza dubbio l’ultimo: la sua caduta in desuetudine coincide, ancora una volta simbolicamente, con la scomparsa della latinità nella cultura occidentale, quando non ne sia stato uno degli agenti più efficaci. Personalità di costituzione, di temperamento e di progetto, che attiene ai due maggiori fattori (entrambi difensivi) che hanno presieduto alla sua genesi: di volta in volta, ad extra, l’imposizione di un baluardo rituale all’eresia che minacciava la fede tradizionale della Chiesa circa il sacramento-sacrificio dell’Eucaristia e, ad intra, la pulizia del rito, l’istituzione di uno strumento rituale sfoltito dalla vegetazione sfavillante e rigogliosa da cui era stato ingombrato al termine dell’epoca medievale, per lo meno una selezione nel florilegio delle «apologie» che avevano investito l’ordo missae in tre luoghi particolari: riti d’ingresso, offertorio e riti di comunione. Non va dimenticato, infatti, che la commissione istituita da Pio IV [1559-1565] ha fatto opera d’austerità quanto d’autorità; austerità che sembra, d’altronde, essere stato lo stimolo, il reattore paradossale della fioritura barocca della liturgia e delle sue forme [4].
Per la sua pretesa ostentata all’universalità, alla perennità, all’incorruttibilità, il messale tridentino svolge il ruolo di hapax, in ogni caso di novità, nella storia delle forme liturgiche. Esito di una pretesa romana che si era manifestata, nell’ambito liturgico e non solo disciplinare, sin dall’epoca della riforma gregoriana, in particolare nella penisola iberica. Preoccupazione per l’universale che, da un secolo appena, stimola la scoperta di un Nuovo Mondo (La messe là-bas…), a cui serve magnificamente un nuovo strumento, la stampa, di cui è assolutamente significativo che sia menzionato nella bolla del 1570 [5], e che rivela, nella stessa Chiesa, l’ingresso imminente in una nuova epoca del pensiero: quella del Metodo. Non bisogna infatti dimenticare che il messale del 1570 è un’opera della ragione e, allo stesso tempo, è uno degli atti più fondativi che posero, insieme ad altri, quest’epoca che la periodizzazione scolastica della storia denomina comunemente «Età moderna». Atto di «modernità» ancora fresca e forse inebriata dalla propria forza conquistatrice, questo messale ha ufficialmente l’ubiquità, questo messale-per-sempre che taluni oggi, quattro secoli più tardi e in un’eco che la dice lunga sull’inquietudine che li muove, chiamano volentieri il «messale di sempre». E, com’era normale a quell’epoca, l’atto di modernità «rinascente» suppose, per essere posto, un riferimento più o meno cosciente a un modello antico – e romano – di una monumentalità che trascende la storia: il messale tridentino si voleva anch’esso monumentum ære perennius [6]? Messale «monumentale», cioè che fa opera di memoria del passato come dell’avvenire (procede all’interinazione di un’evoluzione e ci si ricorderà di lui), messale del quale si è dato per scontato che arrestasse la storia e il cui rinvio ancora recente negli archivi dei monumenti liturgici ha suscitato una paura panica, quella che prende in genere l’uomo davanti all’irresistibile dominio di una storia che lo sovrasta sempre, qualunque cosa egli intraprenda per trarla in inganno. Messale «capitale» per il suo luogo geografico e simbolico di origine, per la sua topografia, e anche per la sua tipografia, come vedremo. Non è proprio di ogni capitale richiamare alla residenza e, perciò, suscitare un legame la cui messa in causa o la cui rottura non avvengono senza malessere?

Capitolo 2 - Le quattro cause

Poiché, considerando a fondo il messale tridentino nella sua collocazione storica, non vi è «oggetto» rituale (diamo qui al termine oggetto sia il significato concreto sia quello intellettuale) che non verifichi in sé, fuori da ogni dubbio, la legge che chiameremo – al fine pedagogico di schematizzare – il «quadrato liturgico». Mi spiego. Essendo dotati di una personalità sufficientemente portante, di un’individualità sufficientemente significativa (cioè capace di fare segno), tutti gli oggetti rituali – come può esserlo una «liturgia», nel senso tipico del termine – funzionano sia come principio attivo sia come risultante di un vasto sistema d’interferenze tra quattro poli maggiori che sono così declinati: polo teologico, polo devozionale, polo sociale, polo estetico. Per polo teologico s’intende il punto in cui le teologie sono concomitanti con il rito; per polo devozionale, l’insieme delle manifestazioni affettive e mistiche che questo suscita e che si concentrano su di esso; per polo sociale, gli stili di socializzazione, i comportamenti individuali o collettivi che esso instaura; per polo estetico, il vasto repertorio di forme artistiche di cui è di volta in volta e il mecenate e il beneficiario. Il rito si trova, per così dire, al centro di tale quadrilatero dinamico, interattivo, ove si operano degli scambi sottili: è attorno a questo, a partire da questo, a suo proposito, che prende forma tutto un universo culturale e religioso. È evidente che un tale «quadrato» non può essere prodotto e funzionare al di fuori di un mondo, di una «cristianità» coerente e produttiva, ove teologia, spiritualità e ritualità abbiano un’incidenza, una ripercussione reale e percepibile sui comportamenti socio-politici e le espressioni artistiche. Bisogna che tutto ciò faccia evidentemente, ufficialmente, pubblicamente sistema, perché si sia autorizzati a parlare di quadrato liturgico e, conseguentemente, all’incrocio delle sue diagonali, di un oggetto rituale caratterizzato.
Ora, è precisamente ciò che si è prodotto, e in modo assolutamente esemplare, attorno al messale tridentino. Entriamo in qualche dettaglio. Strumento rituale pienamente in accordo con le grandi riaffermazioni del Concilio di Trento in tema di eucaristia (sessioni XIII, XXI, XXII), il messale di san Pio V sostiene i molti approcci, le molte teorie, i molti tentativi teologici destinati a chiarire la natura sacrificale della Messa e la sua articolazione sul sacrificio della croce, da Caetano [Tommaso De Vio (1469-1534)] e Suarez [Francisco (1548-1617)] fino a padre de la Taille [Maurice (1872-1933)], passando per Franzelin [Johannes Baptiste (1816-1886)], Scheeben [Matthias Joseph (1835-1888)], dom Vonier [Anscar (1875-1938)] e dom Casel [Odo (1886-1948)]: ne è, per così dire, il vivaio e il laboratorio pratico. In modo molto particolare e sensibile questi è l’efflorescenza compiuta e duratura di un’ecclesiologia di tipo gerarchico, ecclesiologia la cui messa in opera concreta – è importante sottolinearlo – è la perfetta messa in scena, l’epifania e lo specchio […]

[François Cassingena-Trévedy, Moine de Ligugé, Te igitur. Le missel de saint Pie V. Herméneutique et déontologie d’un attachement, Ad Solem, Ginevra 2007, pp. 21-33, trad. it. di sr. Bertilla Obl.S.B.]

[1] Paul Claudel, La Messe là-bas (Lectures), Œuvres poétiques, Gallimard, Parigi 1950, p. 491.
[2] Nel pubblicare il messale del 1570, tuttavia, san Pio V non si segnala principalmente come liturgista (cosa che non ha mai preteso di essere): egli pone prevalentemente un atto «politico», nel senso che fa un’opera di unità cattolica (cfr. Nicole Lemaître, Saint Pie V, Fayard, Parigi 1994, p. 197). L’autorità del messale dev’essere posta in relazione con altri atti simbolici del suo pontificato, con i quali costituisce un sistema unico nella memoria storica ed ecclesiale.
[3] Ciò era stipulato, contrariamene alle rivendicazioni dei Riformati, nel capitolo 8 della XXII sessione di Trento: «Benché la Messa contenga un ricco insegnamento per il popolo fedele, non è tuttavia sembrato bene ai Padri che venga indistintamente celebrata in lingua volgare».
[4] Citiamo, a proposito dell’architettura, questa frase di [Bernhard] Hans [Henry] Scharoun [1893-1972]: «Assimilazione di barocco e Controriforma? Di fatto, la Chiesa tridentina avrebbe potuto – e non l’ha fatto – produrre il contrario del barocco». (Baroque. Italie et Europe centrale, Office du Livre, Friburgo 1964, prefazione, p. 14). Nella sua raffinata investigazione del linguaggio musicale e religioso, nel corso del XVII secolo in Francia, Monique Brulin osserva: «In quest’epoca si tratta di “rappresentare” l’emozione, di recitarla in senso teatrale cioè, in un certo senso, di mediatizzarla. Non viene abbandonata direttamente all’emozione e, proprio per questo, rinasce più forte» (Le Verbe et la Voix. La manifestation vocale dans le culte en France au XVII siècle, Beauchesne, Parigi 1998).
[5] Quod recognitum iam et castigatum, matura exhibita considerazione, ut ex hoc instituto, cœoque labore, fructus omnes recipiant, Romæ quam primum imprimi, atque impressum edi mandavimus.
[6] Cfr. Joseph-André Jungmann, Missarum solemnia, Aubier, Parigi 1951, t. I, p. 182: «Dopo un secolo e mezzo di sviluppo ininterrotto della Messa romana, dopo il flusso e riflusso di diverse correnti, il messale di Pio V innalza un potente sbarramento, dopo il quale le acque accumulate seguono la loro strada solo attraverso canali solidamente costruiti e in direzioni precise».

lunedì 21 giugno 2010

Un commento alla Regola di san Benedetto

L’uomo di Dio, Benedetto, fra tante opere meravigliose che lo resero illustre quaggiù, una ne fece che brillò grandemente anche per la dottrina: perché scrisse una Regola dei Monaci, notevole per la discrezione con cui è dettata e ricca di insegnamenti. Se qualcuno vuol conoscere a fondo i costumi e la vita di S. Benedetto, può trovare nelle disposizioni della Regola l’immagine fedele di tutta la sua attività di maestro, poiché questo Santo ‘non sapeva insegnare diversamente dal modo con cui viveva’. A questo giudizio di S. Gregorio Magno, esatto e completo nella sua forma graziosa e sobria, si potrebbero aggiungere due osservazioni: 1°) la bellezza morale di S. Benedetto; il suo temperamento e quasi i suoi lineamenti si riflettono anche nelle pagine candide insieme e profonde del suo biografo; 2°) la Regola stessa, già alla metà del VI secolo, ci appare come frutto di tutto un passato monastico e della spiritualità dei Padri. S. Benedetto è uomo di tradizione, soprattutto”.
Con queste parole inizia l’introduzione al famoso commento alla Regola di san Benedetto, scritta nel secolo XX dall’altrettanto celebre abate di Solesmes, Dom Paul Delatte O.S.B. (1848-1937). Se i decenni da allora non sono trascorsi invano, quanto al continuo approfondimento filologico, storico, dottrinale e spirituale, rimane l’unicità di quest’opera, come già veniva sottolineato nella presentazione al pubblico italiano dell'abate Dom Gerardo Fornaroli O.S.B., dell’abbazia di Praglia: “Come dice lo stesso Dom Delatte (...), il suo commentario rimane, anche dato alle stampe, ciò che fu in origine: una lettura della Regola fatta nel noviziato di S. Pietro di Solesmes. Riproduce, raccorciate, conferenze di iniziazione monastica (...), con linguaggio familiare, proprio come in famiglia”.
Straordinariamente prezioso nel suo svolgimento - ogni brano della Regola, in successione completa, è esposto prima in latino, poi in italiano, e infine commentato -, il Commentario alla Regola di S. Benedetto (Edizioni S.E.S.A., Bergamo 1951, 560 pp.) fu offerto ai lettori italiani grazie all’amorevole cura editoriale delle monache del Monastero San Benedetto di Bergamo, che ancora oggi ne conservano un certo quantitativo di copie, disponibili per i lettori interessati a meglio conoscere la spiritualità benedettina, attingendo a una guida sicura. Chi ne fosse interessato si potrà quindi rivolgere al seguente indirizzo: Monastero San Benedetto, Via Sant'Alessandro 51, 24122 Bergamo. (e-mail: monsanben.bg@tiscali.it)

venerdì 18 giugno 2010

Un documentario sulla vita monastica

Il film Veilleurs dans la nuit. Une journée monastique à l’abbaye Sainte-Madeleine du Barroux – co-realizzato da Eddy Vicken e Yvon Bertorello e prodotto da Les films de L’effronté – ha vinto il premio quale migliore documentario al Festival Internazionale del Film Cattolico “Mirabile Dictu” (http://www.mirabiledictu-icff.com/), svoltosi a Roma dal 7 all’11 giugno 2010 sotto l’alto patrocinio del Pontificio Consiglio per la Cultura. Lo scorso 15 febbraio il film Veilleurs dans la nuit aveva già ricevuto il prestigioso premio “Laurier Première Œuvre / Prix Marcel-Jullian” del Club Audiovisuel de Paris, che era stato consegnato presso il Senato della Repubblica francese agli autori dal nunzio apostolico in Francia, S.E. mons. Luigi Ventura, alla presenza del Padre Abate di Le Barroux. Il film – di 52 minuti, voce narrante di Michael Lonsdale, sottotitoli in italiano, inglese, tedesco e spagnolo – è acquistabile tramite la “boutique en ligne” dell’abbazia di Le Barroux (www.barroux.org/dvd.html).


mercoledì 16 giugno 2010

Gli oblati benedettini / terza parte

La liturgia

La celebrazione del culto divino o il servizio liturgico occupano un ruolo importante nell’organizzazione del monastero e nella giornata del monaco. San Benedetto chiede che non vi si anteponga nulla [cfr. RB XLIII, 3]. Egli chiama la liturgia l’Opera di Dio, altresì detto l’Ufficio divino.
I monasteri non possono esercitare una funzione più importante a gloria di Dio, al servizio delle società e al bene degli individui. La liturgia è come la loro ragion d’essere o il loro fine speciale, per la loro fedeltà a questa tradizione e per la negligenza di cui altrove è diventata troppo spesso l’oggetto.
I benedettini, in ogni tempo e soprattutto in Francia, hanno dato alla lode divina il più grande splendore, rivaleggiando in ciò con i canonici delle cattedrali e delle collegiate. Lo proclamano ad alta voce le belle e venerande chiese con le quali hanno coperto il suolo dei nostri Paesi; sotto le loro volte tutte le arti concorrevano al servizio divino.
L’onore di Dio chiedeva che così fosse; inoltre, era il modo migliore di proclamare solennemente i propri diritti sugli uomini e sui popoli.
Il culto divino comprende il canto quotidiano della Messa e la salmodia in comune, alle ore canoniche. I monaci realizzano in tal modo la parola del salmo: “Benedirò il Signore in ogni tempo, sulla mia bocca sempre la sua lode”, Benedicam Dominum in omni tempore, semper laus ejus in ore meo [Sal 33,2].
La Messa, cantata verso le nove, è il fulcro di questa liturgia, inquadrata fra due “piccole Ore”: Terza – che ricorda la discesa dello Spirito Santo – e Sesta, la preghiera del mezzogiorno, momento nel quale il Salvatore compì la sua Ascensione.
Durante il pomeriggio, Nona evoca il ricordo della sua crocifissione e morte; i Vespri sono la preghiera della sera – vespertina oratio – presentata a Dio con il Magnificat e, le domeniche e le feste, l’oblazione dell’incenso. Compieta è la preghiera con la quale si conclude il lavoro e si offre il riposo a Dio. Il Mattutino è la preghiera notturna, che si prolunga nel silenzio e nella tenebra. Al mattino è la volta delle Lodi, laudes matutinae, che si concludono con il canto del Benedictus. L’Ora di Prima è l’offerta al Signore delle occupazioni della giornata.
Così facendo il monaco si prende cura della moltitudine degli uomini che dimenticano o rifiutano di pregare, supplendo alla loro negligenza o cattiva volontà. La liturgia non è solo una preghiera vocale, bensì la preghiera vocale e mentale più perfetta. Le sue formule sono quasi tutte tratte dai Santi Libri. La Chiesa, che ne ha composto altre e ne ha organizzato l’insieme, ha fatto ciò con l’assistenza dello Spirito Santo.
Mentre il cristiano pronuncia o ascolta le parole di Dio e della Chiesa, la sua anima – penetrata dalle idee e dai sentimenti che esse contengono – le presenta al Signore. La salmodia diventa spirituale; la preghiera vocale si espande in preghiera mentale; lo spirito e la voce sono concordi, come chiede la Santa Regola: “ut mens nostra concordet voci nostrae” [“in modo tale che l’intima disposizione dell’animo si armonizzi con la nostra voce”, RB XIX, 7].
La formazione spirituale data nei monasteri tende a rendere familiare alle anime quest’usanza della preghiera mentale, esercitandole così a vivere della liturgia.
Questa parte attribuita alla liturgia nella vita spirituale è una pura tradizione ecclesiale; i monasteri l’hanno conservata, con loro grande merito. In ragione di ciò, i sacerdoti e i fedeli possono imitare un tale esempio. Gli oblati contraggono un obbligo in tal senso; si tratta persino del loro obiettivo principale. La direzione che viene loro data, le letture che svolgono, i loro sforzi personali, li aiutano in questo; gli esercizi comuni che sono loro proposti, quando si realizza possibile, mettono questo esempio alla loro portata.
Si tratta di cosa facile per un sacerdote oblato di san Benedetto, il quale tutti i giorni celebra la Messa e recita il Breviario, per non dire delle cerimonie liturgiche parrocchiali che presiede e dei sacramenti che amministra. Gli occorre anzitutto osservare puntualmente le prescrizioni delle rubriche o del cerimoniale e pronunciare con intelligenza e pietà tutte le formule. Per giungere a tal punto è necessario familiarizzarsi, con la lettura assidua e la meditazione, con i testi dei libri liturgici, di conoscerne la storia e penetrarne lo spirito.
La teologia, l’agiografia, l’archeologia, tutte le scienze sacre servono a questo studio della liturgia. Vi è modo, in seguito, d’iniziarsi alle diverse arti che la Chiesa mette a profitto nel culto divino: ella riesce, per tale mezzo, ad abbellire la Casa del Signore e a fare della liturgia un’autentica arte.
Rimane infine da mettere, nell’esecuzione di quest’arte, la cura delicata e coltivata che, da sola, può darle la sua perfezione. Allora la liturgia rende a Dio tutta la gloria che Egli ne attende; santifica colui che la celebra; ed è più feconda degli apostolati.
Non è tutto; il sacerdote oblato cerca di familiarizzare i fedeli con la medesima liturgia. Per darne loro il gusto e l’intelligenza egli ne dà spazio nell’insegnamento del catechismo e durante la predicazione.
Si applica a fare discernere le regole e i sentimenti che sostengono e accordano fra loro le arti sacre attorno all’altare. Favorisce la diffusione del canto gregoriano; cerca i mezzi più appropriati a facilitare la partecipazione dei fedeli al canto della Messa e dei Vespri; utilizza a tal fine le opere della gioventù: scuole, patronati o circoli di studio e – anzitutto – la direzione spirituale.
In tale spirito, gli oblati e le oblate assistono alla santa Messa, ove ciò sia possibile tutti i giorni; le domeniche e le festività prestano attenzione a non mancare alla Messa principale, scegliendo di preferenza la loro parrocchia. Si associano, nella misura in cui la discrezione lo consente, al canto, rispondendo al sacerdote, e mescolano la loro voce a quella dei cantori. Sarà la loro devozione preferita.
Quanti ne hanno il tempo e il gusto recitano, interamente o in parte, sia l’Ufficio completo – come lo si trova nel Breviario – sia l’Ufficio del giorno contenuto nel Diurnale. A loro è permesso l’uso del Breviario monastico. Altri si limiteranno alla recita della Compieta, prima di addormentarsi; e al mattino, all’Ufficio di Prima.
La recita del Benedicite e delle grazie, prima e dopo i pasti, è loro ugualmente raccomandata.
Con i misteri che celebra e i santi che onora, con i Vangeli e le Epistole delle domeniche e delle ferie, la Chiesa offre loro degli inesauribili soggetti di meditazione. Imitando i loro padri, costoro amano recitare i Salmi, leggere i Vangeli e le vite dei santi.
Hanno una devozione speciale per il santo patrono della loro parrocchia. Onorano le sante reliquie, l’immagine della Croce e quelle dei santi, i luoghi e gli oggetti consacrati al culto divino, l’uso di oggetti benedetti.
Compiono con piacere la lettura di libri suscettibili di accrescere in loro la stima e l’intelligenza della liturgia. Cercano di apprendere il latino, la lingua della Chiesa, per meglio seguire gli Uffici.
Contribuiscono, con il loro lavoro personale e con i mezzi di cui dispongono, alla costruzione e ornamentazione delle chiese, alla preparazione degli arredi liturgici, all’insegnamento del canto gregoriano. In questo danno la loro preferenza agli uomini e alle opere collegate allo sviluppo delle arti sacre e alla restaurazione delle sante tradizioni cadute in desuetudine.
Nei giorni dei loro incontri mensili, gli oblati e le oblate si fanno un dovere di cantare anch’essi la Messa e i Vespri, a meno che non siano ammessi a cantare con i monaci o le monache, quando una tale riunione avvenga in una chiesa monastica.
Nelle parrocchie ove siano in grado di formare un coro, si mettono a disposizione del sacerdote per prendere parte al canto degli Uffici e per coinvolgere i parrocchiani a fare altrettanto; tuttavia, in questo come in tutto il resto, evitano di assumere le iniziative che non gli appartengono. Memores sint conditionis suae: si ricordino della loro condizione.

[Dom Jean-Martial Besse (1861-1920), Les Oblats de saint Benoît, opuscolo del 1918, poi in Itinéraires, n. 320, febbraio 1988, pp. 73-90 (qui pp. 79-84), trad. it di fr. Romualdo Obl.S.B. - 3 / continua]

venerdì 11 giugno 2010

Signore, abbi pietà anche di noi!

[Dall'omelia di Papa Benedetto XVI nella solennità del Sacratissimo Cuore di Gesù, 11 giugno 2010]


[...] Celebriamo la festa del Sacro Cuore di Gesù e gettiamo con la liturgia, per così dire, uno sguardo dentro il cuore di Gesù, che nella morte fu aperto dalla lancia del soldato romano. Sì, il suo cuore è aperto per noi e davanti a noi – e con ciò ci è aperto il cuore di Dio stesso. La liturgia interpreta per noi il linguaggio del cuore di Gesù, che parla soprattutto di Dio quale pastore degli uomini, e in questo modo ci manifesta il sacerdozio di Gesù, che è radicato nell’intimo del suo cuore; così ci indica il perenne fondamento, come pure il valido criterio, di ogni ministero sacerdotale, che deve sempre essere ancorato al cuore di Gesù ed essere vissuto a partire da esso. Vorrei oggi meditare soprattutto sui testi con i quali la Chiesa orante risponde alla Parola di Dio presentata nelle letture. In quei canti parola e risposta si compenetrano. Da una parte, essi stessi sono tratti dalla Parola di Dio, ma, dall’altra, sono al contempo già la risposta dell’uomo a tale Parola, risposta in cui la Parola stessa si comunica ed entra nella nostra vita. Il più importante di quei testi nell’odierna liturgia è il Salmo 23 (22) – “Il Signore è il mio pastore” –, nel quale l’Israele orante ha accolto l’autorivelazione di Dio come pastore, e ne ha fatto l’orientamento per la propria vita. “Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla”: in questo primo versetto si esprimono gioia e gratitudine per il fatto che Dio è presente e si occupa di noi. La lettura tratta dal Libro di Ezechiele comincia con lo stesso tema: “Io stesso cercherò le mie pecore e ne avrò cura” (Ez 34,11). Dio si prende personalmente cura di me, di noi, dell’umanità. Non sono lasciato solo, smarrito nell’universo ed in una società davanti a cui si rimane sempre più disorientati. Egli si prende cura di me. Non è un Dio lontano, per il quale la mia vita conterebbe troppo poco. Le religioni del mondo, per quanto possiamo vedere, hanno sempre saputo che, in ultima analisi, c’è un Dio solo. Ma tale Dio era lontano. Apparentemente Egli abbandonava il mondo ad altre potenze e forze, ad altre divinità. Con queste bisognava trovare un accordo. Il Dio unico era buono, ma tuttavia lontano. Non costituiva un pericolo, ma neppure offriva un aiuto. Così non era necessario occuparsi di Lui. Egli non dominava. Stranamente, questo pensiero è riemerso nell’Illuminismo. Si comprendeva ancora che il mondo presuppone un Creatore. Questo Dio, però, aveva costruito il mondo e poi si era evidentemente ritirato da esso. Ora il mondo aveva un suo insieme di leggi secondo cui si sviluppava e in cui Dio non interveniva, non poteva intervenire. Dio era solo un’origine remota. Molti forse non desideravano neppure che Dio si prendesse cura di loro. Non volevano essere disturbati da Dio. Ma laddove la premura e l’amore di Dio vengono percepiti come disturbo, lì l’essere umano è stravolto. È bello e consolante sapere che c’è una persona che mi vuol bene e si prende cura di me. Ma è molto più decisivo che esista quel Dio che mi conosce, mi ama e si preoccupa di me. “Io conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me” (Gv 10,14), dice la Chiesa prima del Vangelo con una parola del Signore. Dio mi conosce, si preoccupa di me. Questo pensiero dovrebbe renderci veramente gioiosi. Lasciamo che esso penetri profondamente nel nostro intimo. Allora comprendiamo anche che cosa significhi: Dio vuole che noi come sacerdoti, in un piccolo punto della storia, condividiamo le sue preoccupazioni per gli uomini. Come sacerdoti, vogliamo essere persone che, in comunione con la sua premura per gli uomini, ci prendiamo cura di loro, rendiamo a loro sperimentabile nel concreto questa premura di Dio. E, riguardo all’ambito a lui affidato, il sacerdote, insieme col Signore, dovrebbe poter dire: “Io conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me”. “Conoscere”, nel significato della Sacra Scrittura, non è mai soltanto un sapere esteriore così come si conosce il numero telefonico di una persona. “Conoscere” significa essere interiormente vicino all’altro. Volergli bene. Noi dovremmo cercare di “conoscere” gli uomini da parte di Dio e in vista di Dio; dovremmo cercare di camminare con loro sulla via dell’amicizia di Dio.
Ritorniamo al nostro Salmo. Lì si dice: “Mi guida per il giusto cammino a motivo del suo nome. Anche se vado per una valle oscura, non temo alcun male, perché tu sei con me. Il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza” (23 [22], 3s). Il pastore indica la strada giusta a coloro che gli sono affidati. Egli precede e li guida. Diciamolo in maniera diversa: il Signore ci mostra come si realizza in modo giusto l’essere uomini. Egli ci insegna l’arte di essere persona. Che cosa devo fare per non precipitare, per non sperperare la mia vita nella mancanza di senso? È, appunto, questa la domanda che ogni uomo deve porsi e che vale in ogni periodo della vita. E quanto buio esiste intorno a tale domanda nel nostro tempo! Sempre di nuovo ci viene in mente la parola di Gesù, il quale aveva compassione per gli uomini, perché erano come pecore senza pastore. Signore, abbi pietà anche di noi! Indicaci la strada! Dal Vangelo sappiamo questo: Egli stesso è la via. Vivere con Cristo, seguire Lui – questo significa trovare la via giusta, affinché la nostra vita acquisti senso ed affinché un giorno possiamo dire: “Sì, vivere è stata una cosa buona”. Il popolo d’Israele era ed è grato a Dio, perché Egli nei Comandamenti ha indicato la via della vita. Il grande Salmo 119 (118) è un’unica espressione di gioia per questo fatto: noi non brancoliamo nel buio. Dio ci ha mostrato qual è la via, come possiamo camminare nel modo giusto. Ciò che i Comandamenti dicono è stato sintetizzato nella vita di Gesù ed è divenuto un modello vivo. Così capiamo che queste direttive di Dio non sono catene, ma sono la via che Egli ci indica. Possiamo essere lieti per esse e gioire perché in Cristo stanno davanti a noi come realtà vissuta. Egli stesso ci ha resi lieti. Nel camminare insieme con Cristo facciamo l’esperienza della gioia della Rivelazione, e come sacerdoti dobbiamo comunicare alla gente la gioia per il fatto che ci è stata indicata la via giusta della vita.
C’è poi la parola concernente la “valle oscura” attraverso la quale il Signore guida l’uomo. La via di ciascuno di noi ci condurrà un giorno nella valle oscura della morte in cui nessuno può accompagnarci. Ed Egli sarà lì. Cristo stesso è disceso nella notte oscura della morte. Anche lì Egli non ci abbandona. Anche lì ci guida. “Se scendo negli inferi, eccoti”, dice il Salmo 139 (138). Sì, tu sei presente anche nell’ultimo travaglio, e così il nostro Salmo responsoriale può dire: pure lì, nella valle oscura, non temo alcun male. Parlando della valle oscura possiamo, però, pensare anche alle valli oscure della tentazione, dello scoraggiamento, della prova, che ogni persona umana deve attraversare. Anche in queste valli tenebrose della vita Egli è là. Sì, Signore, nelle oscurità della tentazione, nelle ore dell’oscuramento in cui tutte le luci sembrano spegnersi, mostrami che tu sei là. Aiuta noi sacerdoti, affinché possiamo essere accanto alle persone a noi affidate in tali notti oscure. Affinché possiamo mostrare loro la tua luce.
Il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza”: il pastore ha bisogno del bastone contro le bestie selvatiche che vogliono irrompere tra il gregge; contro i briganti che cercano il loro bottino. Accanto al bastone c’è il vincastro che dona sostegno ed aiuta ad attraversare passaggi difficili. Ambedue le cose rientrano anche nel ministero della Chiesa, nel ministero del sacerdote. Anche la Chiesa deve usare il bastone del pastore, il bastone col quale protegge la fede contro i falsificatori, contro gli orientamenti che sono, in realtà, disorientamenti. Proprio l’uso del bastone può essere un servizio di amore. Oggi vediamo che non si tratta di amore, quando si tollerano comportamenti indegni della vita sacerdotale. Come pure non si tratta di amore se si lascia proliferare l’eresia, il travisamento e il disfacimento della fede, come se noi autonomamente inventassimo la fede. Come se non fosse più dono di Dio, la perla preziosa che non ci lasciamo strappare via. Al tempo stesso, però, il bastone deve sempre di nuovo diventare il vincastro del pastore – vincastro che aiuti gli uomini a poter camminare su sentieri difficili e a seguire il Signore.
Alla fine del Salmo si parla della mensa preparata, dell’olio con cui viene unto il capo, del calice traboccante, del poter abitare presso il Signore. Nel Salmo questo esprime innanzitutto la prospettiva della gioia per la festa di essere con Dio nel tempio, di essere ospitati e serviti da Lui stesso, di poter abitare presso di Lui. Per noi che preghiamo questo Salmo con Cristo e col suo Corpo che è la Chiesa, questa prospettiva di speranza ha acquistato un’ampiezza ed una profondità ancora più grandi. Vediamo in queste parole, per così dire, un’anticipazione profetica del mistero dell’Eucaristia in cui Dio stesso ci ospita offrendo se stesso a noi come cibo – come quel pane e quel vino squisito che, soli, possono costituire l’ultima risposta all’intima fame e sete dell’uomo. Come non essere lieti di poter ogni giorno essere ospiti alla mensa stessa di Dio, di abitare presso di Lui? Come non essere lieti del fatto che Egli ci ha comandato: “Fate questo in memoria di me”? Lieti perché Egli ci ha dato di preparare la mensa di Dio per gli uomini, di dare loro il suo Corpo e il suo Sangue, di offrire loro il dono prezioso della sua stessa presenza. Sì, possiamo con tutto il cuore pregare insieme le parole del Salmo: “Bontà e fedeltà mi saranno compagne tutti i giorni della mia vita” (23 [22], 6).
Alla fine gettiamo ancora brevemente uno sguardo sui due canti alla comunione propostici oggi dalla Chiesa nella sua liturgia. C’è anzitutto la parola con cui san Giovanni conclude il racconto della crocifissione di Gesù: “Un soldato gli trafisse il costato con la lancia e subito ne uscì sangue ed acqua” (Gv 19,34). Il cuore di Gesù viene trafitto dalla lancia. Esso viene aperto, e diventa una sorgente: l’acqua e il sangue che ne escono rimandano ai due Sacramenti fondamentali dei quali la Chiesa vive: il Battesimo e l’Eucaristia. Dal costato squarciato del Signore, dal suo cuore aperto scaturisce la sorgente viva che scorre attraverso i secoli e fa la Chiesa. Il cuore aperto è fonte di un nuovo fiume di vita; in questo contesto, Giovanni certamente ha pensato anche alla profezia di Ezechiele che vede sgorgare dal nuovo tempio un fiume che dona fecondità e vita (Ez 47): Gesù stesso è il tempio nuovo, e il suo cuore aperto è la sorgente dalla quale esce un fiume di vita nuova, che si comunica a noi nel Battesimo e nell’Eucaristia.
La liturgia della Solennità del Sacro Cuore di Gesù prevede, però, come canto di comunione anche un’altra parola, affine a questa, tratta dal Vangelo di Giovanni: Chi ha sete, venga a me. Beva chi crede in me. La Scrittura dice: “Sgorgheranno da lui fiumi d’acqua viva” (cfr Gv 7,37s). Nella fede beviamo, per così dire, dall’acqua viva della Parola di Dio. Così il credente diventa egli stesso una sorgente, dona alla terra assetata della storia acqua viva. Lo vediamo nei santi. Lo vediamo in Maria che, quale grande donna di fede e di amore, è diventata lungo i secoli sorgente di fede, amore e vita. Ogni cristiano e ogni sacerdote dovrebbero, a partire da Cristo, diventare sorgente che comunica vita agli altri. Noi dovremmo donare acqua della vita ad un mondo assetato. Signore, noi ti ringraziamo perché hai aperto il tuo cuore per noi; perché nella tua morte e nella tua risurrezione sei diventato fonte di vita. Fa’ che siamo persone viventi, viventi dalla tua fonte, e donaci di poter essere anche noi fonti, in grado di donare a questo nostro tempo acqua della vita. Ti ringraziamo per la grazia del ministero sacerdotale. Signore, benedici noi e benedici tutti gli uomini di questo tempo che sono assetati e in ricerca. Amen.

giovedì 3 giugno 2010

La vita monastica

Il 28 maggio 2010 il programma televisivo Dieu merci!, condotto sull'emittente francese Direct 8 da Hadrien Lecour, ha messo in onda uno speciale sul tema La vie monastique. Ospite in studio dom Louis-Marie Geyer d’Orth O.S.B., abate del monastero Sainte-Madeleine di Le Barroux. Ne riproduciamo integralmente il contenuto.

martedì 1 giugno 2010

Gli oblati benedettini / seconda parte


Separazione dal mondo

Per un religioso, la separazione dal mondo si effettua mediante l’abito monastico, la clausura e il genere di vita che conduce. Tutto ciò ne fa un uomo a parte.
L’oblato non può spingere le cose così lontano. Ciò nonostante le virtù alle quali tali pratiche sono collegate non hanno nulla che ripugni a una seria esistenza; sono di ogni tempo, e il nostro ha un urgente bisogno di vedersele richiamate.
Gli oblati hanno quale abito monastico un piccolo scapolare nero, che indossano sotto i loro indumenti ordinari; è il segno del legame che li unisce all’Ordine. Lo ricevono ufficialmente quando iniziano il loro noviziato e lo cambiano da sé ogni volta che lo reputano non più indossabile. Questa parte minuscola di vestiario religioso li impegna a fuggire ogni ricerca sconveniente nella stoffa, la forma e il colore dei loro abiti nonché ogni lusso nelle loro abitazioni e arredi. Senza cadere in una negligenza che sarebbe disordine, avvenga che costoro non si allontanino mai dalla degna gravità e dal buon gusto di cui un cristiano non dovrebbe mai essere sprovvisto.
La Croce detta di san Benedetto, più nota con il nome di medaglia di san Benedetto, dev’essere indossata e posta in evidenza; gli oblati ottengono così numerose indulgenze e si assicurano la protezione di un così augusto segno contro le insidie di Satana e gli accidenti della vita. Le lettere che vi sono inscritte sono le iniziali delle parole di cui è composta una pia invocazione alla Croce. Essi impareranno questa preghiera a memoria e servirà loro da orazione giaculatoria.
Gli oblati si faranno un dovere di pietà filiale nel distribuire questa medaglia.
Essi sostituiscono la clausura monastica con la dignità e la gravità del carattere e del portamento, con l’amore della vita interiore, l’orrore del vagabondaggio e degli affanni inutili, la fuga dalle relazioni oziose e degli spettacoli vani o leggeri. La curiosità intellettuale o artistica non servirà loro quale pretesto per allontanarsi da questa linea di condotta, al di fuori della quale non può esserci né raccoglimento né impiego salutare delle proprie giornate.

[Dom Jean-Martial Besse (1861-1920), Les Oblats de saint Benoît, opuscolo del 1918, poi in Itinéraires, n. 320, febbraio 1988, pp. 73-90 (qui pp. 77-79), trad. it di fr. Romualdo Obl.S.B. - 2 / continua]

[nota redazionale: avendo qui accennato alla Croce di San Benedetto, a commento della raffigurazione scelta in apertura, riproduciamo di seguito l'esplicazione estesa delle iniziali, della trascrizione latina e del corrispettivo in italiano]
C. S. P. B.
Crux Sancti Patris Benedicti
Croce del Santo Padre Benedetto
C. S. S. M. L.
Crux Sancta Sit Mihi Lux
La Santa Croce sia la mia luce
N. D. S. M. D.
Non Draco Sit Mihi Dux
Non sia il demonio mio condottiero
V. R. S.
Vade Retro Satana
Fatti indietro, Satana
N. S. M. V.
Numquam Suade Mihi Vana
Non mi attirare alle vanità
S. M. Q. L.
Sunt Mala Quae Libas
Sono mali le tue bevande
I. V. B.
Ipse Venena Bibas
Bevi tu stesso il tuo veleno