martedì 5 gennaio 2010

Una lettura teologica della Regula Benedicti

La Regula Benedicti ha un carattere eminentemente pratico. Questo vuol dire diverse cose. Vuol dire anzitutto quello che non è, specialmente ciò a cui rimanda. Non è un trattato di vita spirituale dove sia elaborata tutta una teoria sull’esperienza cristiana che via via si assimila e quindi produce una spiritualità; non è un trattato di mistica cristiana e neppure riflette un’esperienza interiore fatta oggetto di speciale riflessione. Sotto questo aspetto è diversa da altri testi di vita spirituale perché ha una precisa funzione: quella di regolare la vita cenobitica, questo stare insieme di persone che hanno ricevuto un dono, un carisma singolare che è quello di cercare Dio, quaerere Deum, insieme, attraverso questa vita monastica dove solitudine e compagnia si associano, dove singolarità e comunità fra di loro si coniugano così da rappresentare un cammino verso Dio, una forma di vita cristiana. Con questa singolarità per la quale questa forma di vita cristiana si distingue rispetto ad altre forme di vita.
Si tratta di un insieme coerente di norme, d’indicazioni precise e insieme discrete. Precise perché si caratterizza per la sua sobria analiticità. Se la si confronta con la Regula Magistri si capisce subito che a prescindere dai rapporti fra le due regulae, ci si trova di fronte a un testo sintetico, equilibrato però con delle indicazioni molto circostanziate, che regolano lo stare insieme nella ricerca di Dio, nella forma particolare della vita monastica.
Stare insieme non è ciò che distingue la vita monastica, perché anche i coniugi stanno insieme, anche altre forme di vita religiosa si esprimono comunitariamente; poi, stare insieme nella ricerca di Dio, ma ogni cristiano ricerca Dio. È uno stare insieme nella ricerca di Dio, ma attraverso questa forma particolare che è la forma monastica. La forma non semplicemente di un convento, ma di un monastero.
Sono norme precise, circostanziate ma nello stesso tempo discrete; non sono intolleranti, non soffocano: lasciano sempre quello spazio di agio dove possa esprimersi la libertà, l’iniziativa, quella prudenza, quel rispetto, quell’attenzione alle situazioni delle persone che impediscono un’astratta e opprimente determinazione che valga per tutti. Da qui allora la dote principale che deve avere colui il quale rappresenta Cristo nella comunità: la discrezione, che non è un equilibrio facile, una via di mezzo. Discrezione come attenzione alle situazioni delle persone, per cui indubbiamente il carattere disciplinare, l’ordine che deve essere un tratto caratteristico di una vita cenobitica, non è un ordine che non tenga conto della varietà delle persone che compongono il cenobio. Da qui allora l’importanza della discrezione, che si potrebbe anche definire nei termini della virtù cardinale della prudenza; una prudenza illuminata dal Vangelo, che abbia la finezza e la luce evangelica e il tono proprio della paternità dove si associa l’amore alla cura vigilante e forte, cosicché la disciplina non sia un congegno meccanico, ma la disciplina come una vita dove l’ordine esterno manifesta la convinzione e la partecipazione interiore. L’ordine monastico come segno e traguardo di maturità. La discrezione allora è in funzione della maturità.
Non tenere le persone schiave in quanto rette da norme esteriori che costringono, ma queste norme sono in funzione della crescita interiore e quindi di questo maturare della libertà e della identità.
Una Regula, la quale ha carattere pratico, cioè intende non contenere i dati che contrassegnano la vita cristiana, l’esperienza, lo sviluppo della vita cristiana, ma un insieme di norme che presuppongono la vita cristiana e cercano di dare l’indicazione perché questa vita cristiana, la quale trova i suoi fondamenti propri nelle sorgenti che caratterizzano la vita cristiana, sia vissuta in questa speciale che è quella del cenobio.
La vita monastica – credo lo si debba sottolineare in modo del tutto particolare – è una vita cristiana. Forse troppo facilmente diamo per scontato di essere cristiani, quasi a dire: è ovvio che i monaci siano dei cristiani, il compito del monastero è di dare qualcosa in più… No. Il compito del monastero non è di dare qualcosa in più dell’essere cristiano, ma il monastero aiuta a essere cristiani compiutamente secondo il carisma monastico, perché per tutti, monaci o laici, sacerdoti o religiosi, a importare è di essere cristiani, cioè di essere nella grazia dello Spirito santo, nella conformità a Gesù Cristo, nella sequela di lui, nella condivisione dei suoi misteri. Questo è l’essenziale per tutti e non va presupposto, nel senso che nel monastero è ovvio che si sia cristiani. Non è ovvio mai per nessuno, perché il monastero, vita cristiana nella forma laicale, nella forma sacerdotale, nella forma religiosa, veramente a essere fine allo stesso modo per tutti è di essere pienamente in Gesù Cristo. Questo è lo sforzo e l’impegno di ogni carisma, di tutte le vocazioni.
La Regula Benedicti è in funzione del Vangelo, un aiuto a vivere il Vangelo, è un aiuto per essere dei buoni cristiani. Ma noi non dobbiamo deprimere, abbassare il livello dell’essere cristiani, perché l’essere cristiani è tutto e non c’è qualche cosa di più dell’essere cristiani. Non è ovvio né facile per nessuno.
Perché ti fai monaco? Per essere un cristiano maturo. In quale forma? Nella forma della vita monastica.
Se facciamo attenzione, a ben vedere, non troviamo nella Regula Benedicti la teoria di una particolare spiritualità, nel senso che in questa Regola si rifletta la coscienza che il monaco ha una speciale spiritualità. C’è la coscienza che il monaco è un cristiano che nella fraternità del monastero cerca di vivere pienamente la vocazione evangelica. Per cui non so se sia giusto parlare di spiritualità benedettina. Se si parla di spiritualità benedettina io riterrei che non debba essere in quella forma che quel significato questo linguaggio è venuto ad assumere molto tardivamente.
La vita monastica come è contemplata nella Regula Benedicti è molto semplice, intesa all’essenziale, cioè portata a far emergere i dati primari dell’essere cristiano. Non trovo nella Regula Benedicti una preoccupazione relativa allo stato monastico come stato di perfezione rispetto ad altri stati di vita cristiana che non siano di perfezione. Non c’è la preoccupazione del confronto, nel senso di dire che chi entra in monastero si dispone dentro uno stile, una struttura di vita che è più perfetta rispetto a quella che non sia monastica, che sia in forma laicale. C’è invece l’impegno a realizzare pienamente nel cenobio, e secondo l’impronta, lo stile, l’esigenza cenobitica quel dato comune che è il dato della grazia di Cristo.
È segno di preoccupazione per l’essenziale. Quando dico che la vita monastica è la forma speciale di vivere gli elementi principali del Vangelo intendo precisamente affermare quanto essa sia semplice e non preoccupata di teorizzazioni. La perfezione cristiana certamente è l’impulso che anima la Regula Benedicti, ma non una perfezione rispetto ad altri meno perfetti. Perfezione nel senso che i principi evangelici devono essere accolti e portati a maturazione con animo pieno e generoso.
La discrezione come delimitazione di quell’agio spirituale per cui le persone in monastero maturano, nella libertà, nell’identità. Questa è la perfezione mirata nella Regula Benedicti: la formazione di persone, di discepoli del Signore che progrediscono, che corrono, che hanno il cuore aperto, dilatato, che non si immiseriscono nel compromesso. Questo senza drammaticità, senza strettezze, senza spirito e procedimento gretto.
I monaci sono visti così nella Regula Benedicti: sono dei cristiani che vivono della fede, quindi della Parola di Dio, e quindi vivono sotto l’urgenza della voce che risuona e che chiama impegnando.
[Trascrizione di una conferenza spirituale del prof. don Inos Biffi presso il Monastero San Benedetto di Bergamo / 1 - continua]

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