mercoledì 23 dicembre 2009

O Emmanuel, Rex et legifer noster...

La serie settenaria dei giorni che precedono la Vigilia di Natale è celebrata nella Liturgia con il nome di Ferie maggiori. Tutti i giorni, ai Vespri, si canta una grande Antifona che è un grido verso il Messia e nella quale gli si dà ogni giorno uno dei titoli che gli sono attribuiti nella Scrittura. Queste Antifone sono dette “antifone O dell'Avvento”, perché cominciano tutte con l’esclamazione “O”. Riportiamo di seguito la meditazione sull’antifona del 23 dicembre, come proposta dal celebre abate benedettino di Solesmes, dom Prosper Guéranger (1805-1875), nell’opera L’anno liturgico.

O Emmanuel, Rex et legifer noster, exspectatio gentium, et Salvator earum: veni ad salvandum nos Domine Deus noster.
[O Emmanuele, nostro Re e nostro Legislatore, attesa delle genti e loro salvatore, vieni a salvarci, Signore Dio nostro!]

O Emmanuele!, Re di Pace! Tu entri oggi in Gerusalemme, la città da te scelta, perché è là che hai il tuo Tempio. Presto vi avrai la tua Croce e il tuo Sepolcro; e verrà il giorno in cui costituirai presso di essa il tuo terribile tribunale. Ora tu penetri senza rumore e senza splendore in questa città di David e di Salomone. Essa non è che il luogo del tuo passaggio, mentre ti rechi a Betlemme. Tuttavia, Maria tua madre e Giuseppe suo sposo, non l'attraversano senza salire al Tempio per offrire al Signore i loro voti e i loro omaggi; e si compie allora, per la prima volta, l'oracolo del Profeta Aggeo il quale aveva annunciato che la gloria del secondo Tempio sarebbe stata maggiore di quella del primo. Quel Tempio, infatti, si trova in questo momento in possesso di un'Arca dell'Alleanza molto più preziosa di quella di Mosè, e soprattutto non paragonabile a nessun altro santuario e anche al cielo, per la dignità di Colui che essa racchiude. Vi è lo stesso Legislatore, e non più soltanto la tavola di pietra su cui è scritta la Legge. Ma presto l'Arca vivente del Signore discende i gradini del Tempio, e si dispone a partire per Betlemme, dove la chiamano altri oracoli. Noi adoriamo, o Emmanuele!, tutti i tuoi passi attraverso questo mondo, e ammiriamo con quanta fedeltà osservi quanto è stato scritto di te, affinché nulla manchi ai caratteri di cui devi essere dotato, o Messia, per essere riconosciuto dal tuo popolo. Ma ricordati che sta per suonare l'ora, tutto è pronto per la tua Natività, e vieni a salvarci. Vieni, per essere chiamato non più soltanto Emmanuele, ma Gesù, cioè Salvatore.

venerdì 18 dicembre 2009

San Gregorio Magno e dom Adalbert De Vogüé

Testo fondamentale, per il quale occorre una guida, la principale fonte di cui si dispone per la conoscenza della vita di san Benedetto è il II Libro dei Dialoghi di san Gregorio Magno.
Un grande maestro, quale dom Adalbert de Vogüé O.S.B. – già curatore dell’edizione dei Dialoghi per la collana francese Sources Chrétiennes –, aiuta il lettore anche non specialista ad affrontare questo testo problematico: sia in quanto «fonte unica», sia per l’andamento fortemente agiografico e i conseguenti interrogativi di ordine storico che ne scaturiscono, sia per le caratteristiche interne di stile.
«Confrontare: proprio questa è la risorsa del nostro metodo esplicativo. Il testo di Gregorio, accostato a un altro passo della stessa Vita, o di qualche opera simile, s’illumina mettendolo a confronto. Allora, nella stessa Vita di Benedetto, l’episodio studiato svela il suo significato e la sua funzione propria. Per contrasto, attraverso la Vita di un altro eroe, si vede apparire la fisionomia particolare del nostro santo e la maniera originale della sua biografia» (dalla Prefazione).
De Vogüé invita poi il lettore a non preoccuparsi di discernere tra loro eventi della realtà e prodotti dell'immaginazione umana, ma a porsi di fronte al testo con la domanda giusta, che non è «è vero questo?», ma piuttosto «che cosa vuol dire?». Solo così si potrà giungere a comprenderne il vero messaggio, cioè che Benedetto è davvero conforme all'immagine di santo descritta dalla Bibbia e dall'agiografia.
Dom Adalbert De Vogüé (1924) è monaco benedettino nell’abbazia Sainte-Marie de la Pierre-qui-Vire (Francia), dove dal 1974 vive in eremitaggio. Massimo studioso della Regula Magistri e della Regula Benedicti, ha dedicato la sua ricerca agli autori, alla dottrina e alle istituzioni dei primi secoli del monachesimo cristiano. Per molti anni è stato professore di teologia monastica presso il Pontificio Ateneo S. Anselmo (Roma). Tra le sue opere in italiano: La Regola di S. Benedetto. Commento dottrinale e spirituale, Abbazia di Praglia 1988; Il monachesimo prima di S. Benedetto, Abbazia S. Benedetto di Seregno 1999; S. Benedetto uomo di Dio, Cinisello Balsamo 1999; Sguardi sul monachesimo, Bologna 2006.
Gregorio Magno, Vita di san Benedetto, Commentata da Adalbert De Vogüé, EDB, Bologna 2009, 224 pp.

mercoledì 16 dicembre 2009

Una proposta di preghiera

La Madre Abbadessa Sr. M. Tarcisia Pezzoli O.S.B. e la Comunità benedettina del Monastero San Benedetto di Bergamo, propongono un’iniziativa orante alla quale non ci vogliamo sottrarre e cui aderiamo di tutto cuore, riproponendola a nostra volta nella versione che ci è stata gentilmente inoltrata.

Per il 28 dicembre prossimo, festa liturgica dei SS. Innocenti martiri, vorremmo riproporre, più a largo raggio, un’iniziativa di preghiera a chi avverte con particolare acutezza la difficile situazione dell’infanzia a livello globale, nella consapevolezza che solo valorizzando la preziosità e le risorse rappresentate dai bambini, la nostra società può nutrire una effettiva speranza per un futuro migliore. Quel giorno offriamo la nostra preghiera quotidiana, i nostri sacrifici, le nostre sofferenze per tutti i bambini in difficoltà. Qualcuno questo già lo faceva. Uniamo le nostre forze. Con molta semplicità. Perché il Signore illumini chi ha il dovere e i mezzi per intervenire in situazioni tanto delicate e complesse. Come Comunità monastica non abbiamo che “l’arma” della preghiera, espressione autentica e profonda della nostra “maternità” spirituale, una maternità secondo lo spirito, che sta accanto e sostiene nel silenzio, che condivide e aiuta attraverso la preghiera.
La cronaca del mondo mette sotto gli occhi, ogni giorno, notizie terrificanti che riguardano i bambini. I numeri sono così alti che il volto del bambino offeso scompare nella moltitudine anonima della strage. La strage degli innocenti continua, forme antiche e nuove di sopraffazione e violenza costellano le giornate, sono sotto i nostri occhi. E fa’ soprattutto soffrire quando vi sono coinvolti uomini e donne di Chiesa che così tradiscono la loro alta missione. Pregare per i bambini può forse aiutarci, tutti noi adulti, a capire anche come operare perché le bambine e i bambini possano essere “pienamente bambini”. Il Vangelo ha parole durissime per chi fa del male ai piccoli, ai tempi di Gesù neppure conteggiati nella popolazione perché appunto “non contavano”. Anche oggi troppo spesso i bambini non contano per se stessi, ma solo come mezzo di espressione e affermazione del potere e delle aspettative degli adulti. Ancora il Vangelo dice chiaro che bambini e Regno sono collegati: per la loro totale disponibilità all’oggi, alla vita, per la loro istintiva sete di giustizia e libertà. Così incredibilmente forti, capaci, simpatici. E così tristemente sfruttati, in così tanti modi. Condividiamo l’idea di un giorno di preghiera dedicato a ogni bambino, perché ogni bimbo possa avere dagli adulti ciò che gli spetta: le cose materiali per vivere, la scuola per crescere, l’amore, il rispetto, la tranquillità per fiorire e avere gioia. Come Gesù, che fu lasciato crescere in età e grazia davanti a Dio e agli uomini.
Saremo liete di sapere che altri accolgano questa umile proposta. Fatecelo sapere e passate parola perché in tanti possano aderire.
Augurando a tutti un Santo Natale e un Anno fecondo di grazia nel Dio che si fa’ Bambino per noi.

venerdì 20 novembre 2009

Ai monaci e alle monache dell'Ordine di San Benedetto

Reverendi Padri, Reverende Madri,
Voi siete, secondo la volontà del vostro fondatore, il Patriarca dei monaci, una «scuola al servizio del Signore»: Dominici schola servitii. Fra le varie famiglie religiose della Chiesa, la vostra originalità consiste nell’esservi votati solo al Signore. Lo servite nella Lode, che san Benedetto chiama Opus Dei; e non vi è sufficiente che la Lode sia pura: volete che sia bella. Voi osservate alla lettera la parola del salmista – «Sette volte al giorno io ti lodo» – e date alla vostra lode le ali del canto. Nel nostro secolo trepidante, in cui tutta l’attività si sviluppa sotto il segno dell’utile, è bello che vi siano ancora uomini e donne che si consacrano a lodare Dio, che per fare questo abbandonano varie volte al giorno tutte le occupazioni e si dedicano alla Lode con gravità, con semplicità, per doversi occupare di una funzione sacra. In questo avete un’incontestabile vocazione nel nostro tempo. Mentre attorno a noi, e anche all’interno della Chiesa, siamo testimoni di un’incredibile svalutazione del sacro, voi soli rendete ancora il sacro sensibile. Lo rendete sensibile per la vostra attitudine, il vostro abito, il vostro incedere quando entrate in coro, mediante i saluti che vi scambiate mutualmente, e che distinguono così bene la dignità dell’uomo attore di un dramma sacro, attraverso l’economia così perfettamente calcolata dei gesti liturgici in cui non c’è alcun spazio per l’improvvisazione, ma che tutto significano, con l’armonia coreografica che presiede alle evoluzioni dell’officiante all’altare. Quando assisto a una Messa conventuale, la più semplice che sia – non dico un pontificale –, preferibilmente quando l’organo si ferma e lascia dei lunghi silenzi prima e dopo la consacrazione, Dio è per me più presente e la mia fede trova una certezza particolare. Quando vi si guarda, quando vi si ascolta, si ha la sensazione che ognuno dei vostri gesti e ogni vostra parola corrispondano a una realtà spirituale. Tali gesti e tali parole s’inscrivono in un insieme liturgico che è il mezzo scelto dalla Chiesa per elevare l’anima dei fedeli alla santità, per «rigenerare alla vita celeste», secondo la bella espressione di Pio XII nell’enciclica Mediator Dei. Questa elevazione per la quale una realtà naturale assume un senso sacro non è possibile che per la vostra fedeltà al principio di san Benedetto: «che l’intima disposizione dell’animo si armonizzi con la nostra voce». Perché è tramite il canto che si traduce la vostra lode. Per dare all’Ufficio divino tutta la sua purezza e perfezione, avete ristabilito le melodie sacre nel loro testo autentico, ciò che sarà l’onore del vostro Ordine in questo secolo. Senza dubbio voi portate il culto liturgico a un grado di perfezione che è difficile raggiungere in una qualsiasi parrocchia; ma non vi sono due liturgie, una per i monaci e un’altra per il popolo cristiano: tutto il popolo è stato invitato ad abbeverarsi alla medesima fonte di santità. Alcune parrocchie hanno dimostrato che, anche con mezzi ristretti, si può dare alla liturgia la grandezza e la nobiltà che essa richiede, ciò che è semplicemente una questione di educazione e di formazione dei fedeli. Noi che apparteniamo al popolo cristiano delle parrocchie, abbiamo certamente seguito in maniera inadeguata le vostre lezioni; ciò nonostante anche noi abbiamo la nostra esperienza e sappiamo senza dubbio che la grazia di Dio agisce per mezzo della preghiera liturgica, che agisce mediante il canto della Chiesa.

[André Charlier (1895-1971), Aux moines et aux moniales de l'Ordre de saint Benoît, articolo-appello del 1967 comparso nel volume Le chant grégorien edito da Dominique Martin Morin (Bouère), di cui una prima versione risale al marzo 1965 (Itinéraires, n. 91), poi in Itinéraires, n. 246, settembre-ottobre 1980, pp. 78-84 (qui pp. 79-80), trad. it di fr. Romualdo Obl.S.B. - 1 / continua]

giovedì 19 novembre 2009

Il demone meridiano

[Romualdica non è nato come quaderno delle proprie impressioni ed emozioni; non ce n’è il tempo, né la predisposizione. Scorgendo tuttavia un sole nero all’orizzonte, che rischia di rendere bui e senza gusto anche quegli aspetti che apparivano desiderabili, gradevoli, piacevoli, ho recuperato un articolo di un autore che per la lontananza della sua posizione dalla mia, me lo rende più vicino. S’invita, mi pare, a un cammino di umiltà e di povertà, affinché la positiva povertà della realtà – il lavoro, gli altri, le relazioni – diventi la preziosa ricchezza che aiuta a uscire da quella povertà lacerante, disperante e angosciosa, che è il demone meridiano]


Oggi l’accidia – dopo essere stata vittima di una prolungata amnesia per cui non si sapeva neppure più che tipo di malattia spirituale fosse – gode di un rinnovato e vasto interesse: ne parlano i filosofi, i sociologi e anche quanti si interessano alla spiritualità. In realtà non credo che siano molti a esercitarsi contro di essa con la lotta spirituale, non molti a conoscerla fino a farne una diagnostica personale, non molti, di conseguenza, ad avere esperienza della possibile vittoria su di essa. Inoltre, anche se molti sostengono di parlare e scrivere sull’accidia, sovente parlano e scrivono d’altro, finendo per confonderla con disagi e patologie differenti. Sì, l’accidia gode oggi di grande attenzione, eppure pochissimi ne parlano per conoscenza autentica, vissuta con la mente, il cuore, il corpo.
Cos’è, dunque, l’accidia o acedia? Akedia nel greco classico indica la mancanza, il venir meno di un interesse, un’attenzione, una sollecitudine: è quindi uno stato di scoraggiamento, di sconforto, un sentimento che rasenta la disperazione perché non si scorge più la possibilità di un senso e, dunque, di “salvezza”. Nella bibbia greca dei LXX c’è un’indicazione preziosa per individuare chi si trova nell’acedia. Il profeta anonimo, narrando la propria missione, proclama: “Lo spirito del Signore è su di me, perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione, mi ha mandato a portare la buona notizia ai miseri ... per allietare gli afflitti di Sion, per dare loro ... un canto di lode invece dello spirito di acedia” (Isaia 61,1-3). Nella tradizione cristiana, il primo a parlare dell’acedia è Origene che la indica come tentazione subita da Gesù nel deserto e la individua come assopimento, intontimento, perdita di vigilanza. Poco più tardi Evagrio identificherà l’acedia e la descriverà tra le otto passioni, le otto tentazioni contro le quali il monaco deve lottare: una dominante, una suggestione efficace, un “demonio” che assale tentando di invadere la persona fino a offuscare lo sguardo del cuore, fino a travolgerla per trascinarla ai bordi della patologia psichica grave, fino alla depressione. Sarà lo stesso Evagrio, riprendendo un’esegesi rabbinica al Salmo 91,6, a definire questa tentazione “demone meridiano” perché è proprio verso mezzogiorno – ora che nel deserto è particolarmente calda, afosa, ora in cui il peso del digiuno si fa sentire – che affiora nel cuore del monaco la domanda ossessiva: “Ma vale la pena? A che serve tanta fatica? Chi me lo fa fare?”. Chi conosce bene questa tentazione sa che si manifesta subito come patologia, come cattivo rapporto con lo spazio, e sa anche che ad essa si può aggiungere la tristezza – l’altra tentazione, parente così stretta dell’acedia che l’occidente le ha unificate in un unico “vizio capitale” – che è un cattivo rapporto con il tempo.
L’acedia è veramente il “male oscuro”: al suo apparire ispira un turbamento tra il nostro corpo e il nostro intelletto, tra lo spazio in cui siamo e la nostra persona: si cessa di habitare secum, non si riesce più ad abitare la solitudine, il deserto, il silenzio in una quiete pacificata e si tentano fughe da se stessi accompagnate da uno smarrimento di adesione alla realtà. L’ansia interiore viene percepita con disgusto spirituale, invade l’intera persona e diventa matrice di sensazioni e dominanti che possono condurre verso il vuoto, l’abisso, la “nientità”, il cinismo nei confronti della vita e degli altri; a volte invece prevale il sogno di una diversità impossibile, il pensiero di un “altrove” in una situazione irreale in cui non c’è più sforzo spirituale, né esercizio di vigilanza e neppure la presenza di Dio che pur si percepisce a tratti come schiacciante.
Così il sentimento dell’acedia si insinua nel cuore e poco alla volta lo occupa interamente a scapito di ogni altro sentimento perché non è una sensazione epidermica o superficiale ma sorge dalle profondità più nascoste e meno conosciute dell’essere umano. E’ una malattia radicale e cronica del cuore, uno stato d’animo che porta al disorientamento, alla de-costruzione di tutto ciò che si è fatto nella vita, alla de-vocazione di ciò che si è diventati. Evagrio dice che l’acedia ha il terribile potere di spegnere la luce di Dio negli occhi dell’uomo.
Questa tentazione, che l’essere umano ha sempre conosciuto, forse oggi si fa più frequente e intensa, soprattutto nel mondo occidentale: là dove non si è più assillati dalla fame e dalla lotta quotidiana per la sopravvivenza, ecco aprirsi lo spazio per desideri e bisogni che vanno al di là di quelli primari e che, proprio per questo, hanno in sé una vena di insaziabilità. Quando oggi si cerca di capire l’aumento di suicidi in tutte le fasce di età, la rivendicazione sempre più insistente ed esplicita di essere aiutati a morire senza sofferenza, la rimozione della morte per l’insostenibile pesantezza della sua realtà, allora bisognerebbe avere il coraggio di fare una diagnosi nella società e nella cultura e riconoscere che siamo in una società depressa, viziata dall’acedia, da questa malattia che impedisce il dinamismo dell’amare e dell’essere amati: nemmeno l’amore appare più credibile, nemmeno questo “vale la pena”. Umberto Galimberti chiama l’acedia “noia”, “vuoto intellettuale”, “malinconia”: espressioni che fanno riferimento non tanto a un vizio o a una nevrosi, ma piuttosto a un sentimento di “esilio sulla terra”. C’è del vero in questo, ma non si pensi che questa tentazione sia estranea a chi vive nella tensione verso “un altro cielo e un’altra terra”: l’acedia a volte è seduzione di ateismo e in questa particolare tentazione i monaci sono esperti proprio in virtù del loro esercitarsi a fare a meno di molte cose.
Atonia del cuore, asfissia dell’intelletto, paresi della volontà riducono l’uomo ad abitare zone infernali, a dimorare agli “inferi”, cioè in abissi di nonsenso dove l’uomo ha smarrito la sua dignità. Eppure, anche in questa situazione, la voce di Dio può risuonare e chiedere addirittura, come a Silvano del Monte Athos, di abitare agli inferi senza disperare! E’ un caso che santi della nostra epoca come Teresa di Lisieux e Silvano dell’Athos, santi che percepiamo così attuali, abbiano conosciuto questa tentazione fino ai bordi dell’inferno? Ma i padri del deserto di ieri e di oggi, i solitari capaci di discernimento, non solo conoscono questa tentazione e la sanno diagnosticare fin dai primi sintomi, ma – da autentici “cardiognostici”, conoscitori del cuore umano – sanno anche indicare i comportamenti atti a prevenirla e i rimedi adatti a curarla. Essi sanno che questa “passione” nasce innanzitutto in una vita vissuta alla giornata, una vita nutrita di spiritualità vagabonda in cui l’amore non è legato a una storia, a una vicenda ma solo all’istante e all’esperienza di un momento. Chi fa una vita obbediente solo a uno sfrenato attivismo – magari anche assunto “a fin di bene”, in favore degli altri – e non sa habitare secum per attingere alla sorgente, chi si sfibra in molteplici rapporti superficiali, chi non si esercita quotidianamente a discernere il proprio desiderio, la propria volontà, il proprio operare, assumendo fallimenti e riuscite, questi finirà per incontrare presto o tardi l’acedia nel suo devastante incedere.
Per questo i rimedi che i padri del deserto indicano per controllare e vincere questo demone hanno essenzialmente tutti a che fare con la vigilanza e il discernimento sulla volontà propria: l’invocazione del Nome di Gesù, la preghiera, l’assiduità alle sante Scritture, lo stare saldi senza inseguire il vento... E per questo io credo che il rimedio per eccellenza rimanga l’eucaristia: eucaristia come esercizio di rendimento di grazie, eucaristia come rapporto con le cose dono di Dio, eucaristia come strumento di comunione cristica e cosmica. Ora, l’acedia è l’esatto contrario dell’eucaristia, cioè dello spirito di ringraziamento: incapace di cogliere il rapporto con lo “spazio” e il senso delle cose, chi è preda dell’acedia vive nella a-charistia, nell’incapacità a stupirsi della bellezza, dell’amore e, quindi, nell’incapacità a rendere grazie. Come affermava già Giovanni Climaco: “nella solitudine, privi di consolazione, si è tentati dal demone dell’acedia e della acharistia”. Sì, l’acedia è non credere all’amore, mentre il cristiano dice con l’apostolo Giovanni “noi crediamo all’amore”!

[Enzo Bianchi, Scacco matto all’accidia, Avvenire, 6 maggio 2007]

mercoledì 18 novembre 2009

La Bellezza Immutabile

"Interroga la bellezza della terra, interroga la bellezza del mare, interroga la bellezza dell’aria diffusa e soffusa. Interroga la bellezza del cielo, interroga l’ordine delle stelle, interroga il sole, che col suo splendore rischiara il giorno; interroga la luna, che col suo chiarore modera le tenebre della notte. Interroga le fiere che si muovono nell'acqua, che camminano sulla terra, che volano nell'aria: anime che si nascondono, corpi che si mostrano; visibile che si fa guidare, invisibile che guida. Interrogali! Tutti ti risponderanno: Guardaci: siamo belli! La loro bellezza li fa conoscere. Questa bellezza mutevole chi l’ha creata, se non la Bellezza Immutabile?"

[Sant'Agostino, Sermo CCXLI, 2: PL 38, 1134]

venerdì 13 novembre 2009

Omnium Sanctorum O.S.B.

Nella famiglia monastica benedettina, il 13 novembre ricorre la festività di tutti i santi dell'Ordine (e l'indomani la commemorazione di tutti i defunti dell'Ordine). Il Prefazio della Messa propria è quello di san Benedetto, che viene inoltre recitato nelle festività di san Benedetto - il 21 marzo e l'11 luglio -, in quella di santa Scolastica - il 10 febbraio - e nelle Messe votive di san Benedetto.

Vere dignum et justum est, aequum et salutare, nos tibi semper et ubique gratias agere, Domine, sancte pater, omnipotens aeterne Deus: qui beatissimum confessorem tuum Benedictum, ducem et magistrum caelitus edoctum, innumerabili multitudini filiorum statuisti. Quem et omnium justorum spiritu repletum, et extra se raptum, luminis tui splendore collustrasti; ut in ipsa luce visionis intimae, mentis laxato sinu, quam angusta essent inferiora deprehenderet. Per Christum Dominum nostrum. Quapropter profusiis gaudiis, tutus in orbe terrarum monachorum coetus exsulta. Sed et supernae virtutes atque angelicae Potestates hymnum gloriae tuae concinunt, sine fine dicentes...

giovedì 12 novembre 2009

La riforma cluniacense

Catechesi di Benedetto XVI di mercoledì 11 novembre 2009.

Cari fratelli e sorelle,
questa mattina vorrei parlarvi di un movimento monastico che ebbe grande importanza nei secoli del Medioevo, e di cui ho già fatto cenno in precedenti catechesi. Si tratta dell’Ordine di Cluny, che, all’inizio del XII secolo, momento della sua massima espansione, contava quasi 1200 monasteri: una cifra veramente impressionante! A Cluny, proprio 1100 anni fa, nel 910, fu fondato un monastero posto sotto la guida dell’abate Bernone, in seguito alla donazione di Guglielmo il Pio, Duca di Aquitania. In quel momento il monachesimo occidentale, fiorito qualche secolo prima con san Benedetto, era molto decaduto per diverse cause: le instabili condizioni politiche e sociali dovute alle continue invasioni e devastazioni di popoli non integrati nel tessuto europeo, la povertà diffusa e soprattutto la dipendenza delle abbazie dai signori locali, che controllavano tutto ciò che apparteneva ai territori di loro competenza. In tale contesto, Cluny rappresentò l’anima di un profondo rinnovamento della vita monastica, per ricondurla alla sua ispirazione originaria.
A Cluny venne ripristinata l’osservanza della Regola di san Benedetto con alcuni adattamenti già introdotti da altri riformatori. Soprattutto si volle garantire il ruolo centrale che deve occupare la Liturgia nella vita cristiana. I monaci cluniacensi si dedicavano con amore e grande cura alla celebrazione delle Ore liturgiche, al canto dei Salmi, a processioni tanto devote quanto solenni e, soprattutto, alla celebrazione della Santa Messa. Promossero la musica sacra; vollero che l’architettura e l’arte contribuissero alla bellezza e alla solennità dei riti; arricchirono il calendario liturgico di celebrazioni speciali come, ad esempio, all’inizio di novembre, la Commemorazione dei fedeli defunti, che anche noi abbiamo da poco celebrato; incrementarono il culto della Vergine Maria. Fu riservata tanta importanza alla liturgia, perché i monaci di Cluny erano convinti che essa fosse partecipazione alla liturgia del Cielo. Ed i monaci si sentivano responsabili di intercedere presso l’altare di Dio per i vivi e per i defunti, dato che moltissimi fedeli chiedevano loro con insistenza di essere ricordati nella preghiera. Del resto, proprio con questo scopo Guglielmo il Pio aveva voluto la nascita dell’Abbazia di Cluny. Nell’antico documento, che ne attesta la fondazione, leggiamo: “Stabilisco con questo dono che a Cluny sia costruito un monastero di regolari in onore dei santi apostoli Pietro e Paolo, e che ivi si raccolgano monaci che vivono secondo la Regola di san Benedetto (…) che lì un venerabile asilo di preghiera con voti e suppliche sia frequentato, e si ricerchi e si brami con ogni desiderio e intimo ardore la vita celeste, e assiduamente orazioni, invocazioni e suppliche siano dirette al Signore”. Per custodire ed alimentare questo clima di preghiera, la regola cluniancense accentuò l’importanza del silenzio, alla cui disciplina i monaci si sottoponevano volentieri, convinti che la purezza delle virtù, a cui aspiravano, richiedeva un intimo e costante raccoglimento. Non meraviglia che ben presto una fama di santità avvolse il monastero di Cluny, e che molte altre comunità monastiche decisero di seguire le sue consuetudini. Molti principi e Papi chiesero agli abati di Cluny di diffondere la loro riforma, sicché in poco tempo si estese una fitta rete di monasteri legati a Cluny o con veri e propri vincoli giuridici o con una sorta di affiliazione carismatica. Si andava così delineando un’Europa dello spirito nelle varie regioni della Francia, in Italia, in Spagna, in Germania, in Ungheria.
Il successo di Cluny fu assicurato anzitutto dalla spiritualità elevata che vi si coltivava, ma anche da alcune altre condizioni che ne favorirono lo sviluppo. A differenza di quanto era avvenuto fino ad allora, il monastero di Cluny e le comunità da esso dipendenti furono riconosciuti esenti dalla giurisdizione dei Vescovi locali e sottoposti direttamente a quella del Romano Pontefice. Ciò comportava un legame speciale con la sede di Pietro e, grazie proprio alla protezione e all’incoraggiamento dei Pontefici, gli ideali di purezza e di fedeltà, che la riforma cluniacense intendeva perseguire, poterono diffondersi rapidamente. Inoltre, gli abati venivano eletti senza alcuna ingerenza da parte delle autorità civili, diversamente da quello che avveniva in altri luoghi. Persone veramente degne si succedettero alla guida di Cluny e delle numerose comunità monastiche dipendenti: l’abate Oddone di Cluny, di cui ho parlato in una Catechesi di due mesi fa, e altre grandi personalità, come Emardo, Maiolo, Odilone e soprattutto Ugo il Grande, i quali svolsero il loro servizio per lunghi periodi, assicurando stabilità alla riforma intrapresa e alla sua diffusione. Oltre a Oddone, sono venerati come santi Maiolo, Odilone e Ugo.
La riforma cluniacense ebbe effetti positivi non solo nella purificazione e nel risveglio della vita monastica, bensì anche nella vita della Chiesa universale. Infatti, l’aspirazione alla perfezione evangelica rappresentò uno stimolo a combattere due gravi mali che affliggevano la Chiesa di quel periodo: la simonia, cioè l’acquisizione di cariche pastorali dietro compenso, e l’immoralità del clero secolare. Gli abati di Cluny con la loro autorevolezza spirituale, i monaci cluniacensi che divennero Vescovi, alcuni di loro persino Papi, furono protagonisti di tale imponente azione di rinnovamento spirituale. E i frutti non mancarono: il celibato dei sacerdoti tornò a essere stimato e vissuto, e nell’assunzione degli uffici ecclesiastici vennero introdotte procedure più trasparenti.
Significativi pure i benefici apportati alla società dai monasteri ispirati alla riforma cluniacense. In un’epoca in cui solo le istituzioni ecclesiastiche provvedevano agli indigenti fu praticata con impegno la carità. In tutte le case, l’elemosiniere era tenuto a ospitare i viandanti e i pellegrini bisognosi, i preti e i religiosi in viaggio, e soprattutto i poveri che venivano a chiedere cibo e tetto per qualche giorno. Non meno importanti furono altre due istituzioni, tipiche della civiltà medioevale, promosse da Cluny: le cosiddette “tregue di Dio” e la “pace di Dio”. In un’epoca fortemente segnata dalla violenza e dallo spirito di vendetta, con le “tregue di Dio” venivano assicurati lunghi periodi di non belligeranza, in occasione di determinate feste religiose e di alcuni giorni della settimana. Con “la pace di Dio” si chiedeva, sotto la pena di una censura canonica, di rispettare le persone inermi e i luoghi sacri.
Nella coscienza dei popoli dell’Europa si incrementava così quel processo di lunga gestazione, che avrebbe portato a riconoscere, in modo sempre più chiaro, due elementi fondamentali per la costruzione della società, e cioè il valore della persona umana e il bene primario della pace. Inoltre, come accadeva per le altre fondazioni monastiche, i monasteri cluniacensi disponevano di ampie proprietà che, messe diligentemente a frutto, contribuirono allo sviluppo dell’economia. Accanto al lavoro manuale, non mancarono neppure alcune tipiche attività culturali del monachesimo medioevale come le scuole per i bambini, l’allestimento delle biblioteche, gli scriptoria per la trascrizione dei libri.
In tal modo, mille anni fa, quando era in pieno svolgimento il processo di formazione dell’identità europea, l’esperienza cluniacense, diffusa in vaste regioni del continente europeo, ha apportato il suo contributo importante e prezioso. Ha richiamato il primato dei beni dello spirito; ha tenuto desta la tensione verso le cose di Dio; ha ispirato e favorito iniziative e istituzioni per la promozione dei valori umani; ha educato ad uno spirito di pace. Cari fratelli e sorelle, preghiamo perché tutti coloro che hanno a cuore un autentico umanesimo e il futuro dell’Europa sappiano riscoprire, apprezzare e difendere il ricco patrimonio culturale e religioso di questi secoli.

mercoledì 11 novembre 2009

San Martino

Assunta la carica episcopale, non è nelle nostre capacità illustrare a sufficienza le sue qualità e la grandezza del suo comportamento. Egli, infatti, restò sempre l'uomo che era stato prima: la sua umiltà di cuore rimase inalterata, identica anche la povertà del suo abbigliamento; e così, ripieno di autorità e di grazia, aveva tutta la dignità di un vescovo senza abbandonare il genere di vita e la virtù di un monaco. Per qualche tempo, dimorò in una cella attigua alla chiesa, poi, poiché non poteva sopportare il disagio che gli causavano i visitatori, decise di trasferirsi in un monastero distante circa due miglia dalla città. La località era così appartata e sperduta, che egli non aveva da desiderare la solitudine di un eremo. Infatti, da un lato, era cinto dalle rocce a picco di un'alta montagna, dall'altro lato, la pianura era chiusa da una piccola ansa della Loira. L’unica via d’accesso era costituita da una sola strada, e per giunta molto stretta. Martino occupava una cella fatta di legno come del resto molti dei suoi confratelli: i più avevano scavato la roccia della montagna sovrastante e ne avevano ricavato le loro celle. Circa ottanta erano i discepoli che si uniformavano all'esempio del loro beato maestro. Nessuno possedeva niente in proprio, tutto era messo in comune. A nessuno era lecito acquistare o vendere alcunché, come sono soliti fare certi monaci. Nell’eremo non si esercitava nessuna arte, eccetto quello del copista, ma questo lavoro era riservato ai più giovani, i più anziani invece trascorrevano il loro tempo in preghiera. Raramente uscivano dalla propria cella, eccetto quando si riunivano nel luogo dove avveniva la preghiera in comune. Quando non digiunavano, mangiavano tutti quanti insieme; non si conosceva il vino, salvo quando qualcuno era ammalato. La maggior parte erano vestiti di pelle di cammello; là, era considerato peccato indossare abiti delicati. Questo rigore era tanto più ammirevole per il fatto che molti monaci erano, a quanto si diceva, dei nobili, allevati in maniera assai ben diversa, si erano assoggettati a questa vita fatta di umiltà e di privazioni. Parecchi di essi, in seguito, li abbiamo visti vescovi. Difatti, quale città o quale chiesa non avrebbe desiderato un vescovo proveniente dal monastero di Martino?

[Sulpicio Severo (360 ca.-420 ca.), Vita Martini, cap. X, "Fondazione del monastero di Marmoutier nei pressi di Tours"]

martedì 10 novembre 2009

La dolcezza della vita contemplativa

Catechesi di Benedetto XVI di mercoledì 2 settembre 2009, quando il Papa si è soffermato sulla figura di sant'Oddone, abate di Cluny.

Cari fratelli e sorelle,
(…) vorrei riprendere la presentazione dei grandi Scrittori della Chiesa di Oriente e di Occidente del tempo medioevale, perché, come in uno specchio, nelle loro vite e nei loro scritti vediamo che cosa vuol dire essere cristiani. Oggi vi propongo la figura luminosa di sant’Oddone, abate di Cluny: essa si colloca in quel medioevo monastico che vide il sorprendente diffondersi in Europa della vita e della spiritualità ispirate alla Regola di san Benedetto. Vi fu in quei secoli un prodigioso sorgere e moltiplicarsi di chiostri che, ramificandosi nel continente, vi diffusero largamente lo spirito e la sensibilità cristiana. Sant’Oddone ci riconduce, in particolare, ad un monastero, Cluny, che nel medioevo fu tra i più illustri e celebrati ed ancora oggi rivela attraverso le sue maestose rovine i segni di un passato glorioso per l’intensa dedizione all’ascesi, allo studio e, in special modo, al culto divino, avvolto di decoro e di bellezza.
Di Cluny Oddone fu il secondo abate. Era nato verso l’880, ai confini tra il Maine e la Touraine, in Francia. Dal padre fu consacrato al santo Vescovo Martino di Tours, alla cui ombra benefica e nella cui memoria Oddone passò poi l’intera vita, concludendola alla fine vicino alla sua tomba. La scelta della consacrazione religiosa fu in lui preceduta dall’esperienza di uno speciale momento di grazia, di cui parlò egli stesso ad un altro monaco, Giovanni l’Italiano, che fu poi suo biografo. Oddone era ancora adolescente, sui sedici anni, quando, durante una veglia natalizia, si sentì salire spontaneamente alle labbra questa preghiera alla Vergine: “Mia Signora, Madre di misericordia, che in questa notte hai dato alla luce il Salvatore, prega per me. Il tuo parto glorioso e singolare sia, o Piissima, il mio rifugio” (Vita sancti Odonis, I,9: PL 133,747). L’appellativo “Madre di misericordia”, con cui il giovane Oddone invocò allora la Vergine, sarà quello col quale egli amerà poi sempre rivolgersi a Maria, chiamandola anche “unica speranza del mondo, … grazie alla quale ci sono state aperte le porte del paradiso” (In veneratione S. Mariae Magdalenae: PL 133,721). Gli avvenne in quel tempo di imbattersi nella Regola di san Benedetto e di iniziarne alcune osservanze, “portando, non ancora monaco, il giogo leggero dei monaci” (ibid., I,14: PL 133,50). In un suo sermone Oddone celebrerà Benedetto come “lucerna che brilla nel tenebroso stadio di questa vita” (De sancto Benedicto abbate: PL 133,725), e lo qualificherà “maestro di disciplina spirituale” (ibid.: PL 133,727). Con affetto rileverà che la pietà cristiana “con più viva dolcezza fa memoria” di lui, nella consapevolezza che Dio lo ha innalzato “tra i sommi ed eletti Padri della santa Chiesa” (ibid.: PL 133,722).
Affascinato dall’ideale benedettino, Oddone lasciò Tours ed entrò come monaco nell’abbazia benedettina di Baume, per poi passare in quella di Cluny, di cui nel 927 divenne abate. Da quel centro di vita spirituale poté esercitare un vasto influsso sui monasteri del continente. Della sua guida e della sua riforma si giovarono anche in Italia diversi cenobi, tra i quali quello di San Paolo fuori le Mura. Oddone visitò più d’una volta Roma, raggiungendo anche Subiaco, Montecassino e Salerno. Fu proprio a Roma che, nell’estate del 942, cadde malato. Sentendosi prossimo alla fine, con ogni sforzo volle tornare presso il suo san Martino a Tours, ove morì nell’ottavario del Santo, il 18 novembre 942. Il biografo, nel sottolineare in Oddone la “virtù della pazienza”, offre un lungo elenco di altre sue virtù, quali il disprezzo del mondo, lo zelo per le anime, l’impegno per la pace delle Chiese. Grandi aspirazioni dell’abate Oddone erano la concordia tra i re e i principi, l’osservanza dei comandamenti, l’attenzione ai poveri, l’emendamento dei giovani, il rispetto per i vecchi (cfr. Vita sancti Odonis, I,17: PL 133,49). Amava la celletta dove risiedeva, “sottratto agli occhi di tutti, sollecito di piacere solo a Dio” (ibid., I,14: PL 133,49). Non mancava, però, di esercitare pure, come “fonte sovrabbondante”, il ministero della parola e dell’esempio, “piangendo come immensamente misero questo mondo” (ibid., I,17: PL 133,51). In un solo monaco, commenta il suo biografo, si trovavano raccolte le diverse virtù esistenti in stato sparso negli altri monasteri: “Gesù nella sua bontà, attingendo ai vari giardini dei monaci, formava in un piccolo luogo un paradiso, per irrigare dalla sua fonte i cuori dei fedeli” (ibid., I,14: PL 133,49).
In un passo di un sermone in onore di Maria di Magdala l’abate di Cluny ci rivela come egli concepiva la vita monastica: “Maria che, seduta ai piedi del Signore, con spirito attento ascoltava la sua parola, è il simbolo della dolcezza della vita contemplativa, il cui sapore, quanto più è gustato, tanto maggiormente induce l’animo a distaccarsi dalle cose visibili e dai tumulti delle preoccupazioni del mondo” (In ven. S. Mariae Magd., PL 133,717). È una concezione che Oddone conferma e sviluppa negli altri suoi scritti, dai quali traspaiono l’amore all’interiorità, una visione del mondo come di realtà fragile e precaria da cui sradicarsi, una costante inclinazione al distacco dalle cose avvertite come fonti di inquietudine, un’acuta sensibilità per la presenza del male nelle varie categorie di uomini, un’intima aspirazione escatologica. Questa visione del mondo può apparire abbastanza lontana dalla nostra, tuttavia quella di Oddone è una concezione che, vedendo la fragilità del mondo, valorizza la vita interiore aperta all’altro, all’amore del prossimo, e proprio così trasforma l’esistenza e apre il mondo alla luce di Dio.
Merita particolare menzione la “devozione” al Corpo e al Sangue di Cristo che Oddone, di fronte a una estesa trascuratezza da lui vivacemente deplorata, coltivò sempre con convinzione. Era infatti fermamente convinto della presenza reale, sotto le specie eucaristiche, del Corpo e del Sangue del Signore, in virtù della conversione “sostanziale” del pane e del vino. Scriveva: “Dio, il Creatore di tutto, ha preso il pane, dicendo che era il suo Corpo e che lo avrebbe offerto per il mondo e ha distribuito il vino, chiamandolo suo Sangue”; ora, “è legge di natura che avvenga il mutamento secondo il comando del Creatore”, ed ecco, pertanto, che “subito la natura muta la sua condizione solita: senza indugio il pane diventa carne, e il vino diventa sangue”; all’ordine del Signore “la sostanza si muta” (Odonis Abb. Cluniac. occupatio, ed. A. Swoboda, Lipsia 1900, p. 121). Purtroppo, annota il nostro abate, questo “sacrosanto mistero del Corpo del Signore, nel quale consiste tutta la salvezza del mondo” (Collationes, XXVIII: PL 133,572), è negligentemente celebrato. “I sacerdoti, egli avverte, che accedono all’altare indegnamente, macchiano il pane, cioè il Corpo di Cristo” (ibid., PL 133,572-573). Solo chi è unito spiritualmente a Cristo può partecipare degnamente al suo Corpo eucaristico: in caso contrario, mangiare la sua carne e bere il suo sangue non sarebbe di giovamento, ma di condanna (cfr. ibid., XXX, PL 133,575). Tutto questo ci invita a credere con nuova forza e profondità la verità della presenza del Signore. La presenza del Creatore tra noi, che si consegna nelle nostre mani e ci trasforma come trasforma il pane e il vino, trasforma così il mondo.
Sant’Oddone è stato una vera guida spirituale sia per i monaci che per i fedeli del suo tempo. Di fronte alla “vastità dei vizi” diffusi nella società, il rimedio che egli proponeva con decisione era quello di un radicale cambiamento di vita, fondato sull’umiltà, l’austerità, il distacco dalle cose effimere e l’adesione a quelle eterne (cfr. Collationes, XXX, PL 133, 613). Nonostante il realismo della sua diagnosi circa la situazione del suo tempo, Oddone non indulge al pessimismo: “Non diciamo questo – egli precisa – per precipitare nella disperazione quelli che vorranno convertirsi. La misericordia divina è sempre disponibile; essa aspetta l’ora della nostra conversione” (ibid.: PL 133, 563). Ed esclama: “O ineffabili viscere della pietà divina! Dio persegue le colpe e tuttavia protegge i peccatori” (ibid.: PL 133,592). Sostenuto da questa convinzione, l’abate di Cluny amava sostare nella contemplazione della misericordia di Cristo, il Salvatore che egli qualificava suggestivamente come “amante degli uomini”: “amator hominum Christus” (ibid., LIII: PL 133,637). Gesù ha preso su di sé i flagelli che sarebbero spettati a noi – osserva – per salvare così la creatura che è opera sua e che ama (cfr. ibid.: PL 133, 638).
Appare qui un tratto del santo abate a prima vista quasi nascosto sotto il rigore della sua austerità di riformatore: la profonda bontà del suo animo. Era austero, ma soprattutto era buono, un uomo di una grande bontà, una bontà che proviene dal contatto con la bontà divina. Oddone, così ci dicono i suoi coetanei, effondeva intorno a sé la gioia di cui era ricolmo. Il suo biografo attesta di non aver sentito mai uscire da bocca d’uomo “tanta dolcezza di parola” (ibid., I,17: PL 133,31). Era solito, ricorda il biografo, invitare al canto i fanciulli che incontrava lungo la strada per poi far loro qualche piccolo dono, e aggiunge: “Le sue parole erano ricolme di esultanza…, la sua ilarità infondeva nel nostro cuore un’intima gioia” (ibid., II, 5: PL 133,63). In questo modo il vigoroso ed insieme amabile abate medioevale, appassionato di riforma, con azione incisiva alimentava nei monaci, come anche nei fedeli laici del suo tempo, il proposito di progredire con passo solerte sulla via della perfezione cristiana.
Vogliamo sperare che la sua bontà, la gioia che proviene dalla fede, unite all’austerità e all’opposizione ai vizi del mondo, tocchino anche il nostro cuore, affinché anche noi possiamo trovare la fonte della gioia che scaturisce dalla bontà di Dio.

venerdì 6 novembre 2009

Non finis quaerendi

Interrogati noi stessi, ci siamo detti che nulla ha perso in attualità e importanza l’affermazione del celebre abate benedettino di Solesmes, dom Prosper Guéranger (1805-1875), secondo il quale: “Nella liturgia lo Spirito che ispirò le Scritture parla ancora; la liturgia è la Tradizione stessa nel suo più alto grado di potenza e di solennità”.
Il riferimento a dom Guéranger non è del tutto casuale. D’altro canto, e ripetutamente, la Chiesa ha puntualmente ricordato il ruolo di primo piano “dei monaci e delle monache” (Benedetto XVI, motu proprio Summorum pontificum) nella cura dell’offerta alla Divina Maestà di un culto degno, “a lode e gloria del Suo nome” e “ad utilità di tutta la sua Santa Chiesa”. Operando “sotto la Regola di san Benedetto, dovunque unitamente all’annuncio del Vangelo [costoro] illustrarono con la loro vita la salutare massima della Regola: ‘Nulla venga preposto all’opera di Dio’ (cap. 43)” (ibid.).
Questi pensieri ci accompagnano mentre, ancora una volta, riflettiamo sulle possibilità di un “nuovo movimento liturgico”. Esso prenderà vita, o l’ha già presa? E rientra nei suoi compiti la considerazione di una “riforma della riforma”? Allo stato attuale, pare che esso si collochi più nei cuori che s’interrogano sul ruolo della liturgia nella vita dei cristiani e della Chiesa, che in istanze a ciò preposte. Forse è un bene che sia così, posto il luogo che la liturgia occupa e deve occupare: il cuore, appunto.
In quest’ottica, un orizzonte spirituale ci è offerto dalla ruminazione di un’anima consacrata che lo Spirito ha chiamato a essere lievito della “riforma della riforma”, qualsiasi cosa Dio vorrà che tale “riforma” debba essere. La traccia è in uno scritto profetico dell’Antico Testamento – verrebbe da dire, Ecriture d’abord! –, che riportiamo: “Così dice il Signore: ‘Fermatevi nelle strade e guardate, informatevi dei sentieri del passato, dove sta la strada buona percorretela, così troverete pace per la vostra vita’” (Ger 6,16).
Eccoci, come sempre e come ciascuno, per via nella strada, alla ricerca di pace per la nostra vita, quindi alla ricerca dell’unica Pace, che è Dio ed è in Dio. Guardiamo, c’informiamo, onde percorrere la buona strada. Non vogliamo assolutizzare nulla; non abbiamo bisogno di idoli.
Viandanti e rustici peccatori, ci accompagna nell’escursione il Vicario di Cristo. Che in altra veste – non ancora cioè preposto a pascere il gregge affidatogli dal Signore, ma pur sempre nella veste di colui che sarà chiamato a pascerlo, e anch’egli facente parte della compagnia itinerante – sembra non avere mai smesso di riflettere sulla liturgia. Così si esprimeva, privatamente ma chiaramente: “Adesso occorre avanzare passo dopo passo, giacché ogni nuova precipitazione non produrrà buoni risultati. Credo tuttavia, che in avvenire la Chiesa romana dovrà avere nuovamente un solo rito, essendo difficilmente ‘gestibile’ nella pratica, per i vescovi e i sacerdoti, l’esistenza di due riti ufficiali. Il rito romano del futuro dovrebbe essere uno solo, celebrato in latino o in vernacolo, ma interamente fondato nella tradizione del rito antico. Esso potrebbe integrare qualche elemento nuovo che si è sperimentato valido, come le nuove Feste, alcuni nuovi Prefazi della Messa, un Lezionario esteso – una maggiore scelta di prima, ma non troppa –, una Oratio fidelium, cioè una litania di preghiere d’intercessione dopo l’Oremus dell’Offertorio, dove in precedenza aveva la sua collocazione” (card. Joseph Ratzinger, lettera del 23 giugno 2003 al prof. Heinz-Lothar Barth).
Recependo espressamente la riflessione dell’allora card. Ratzinger, in un intervento del 18 agosto 2007 comparso sul quotidiano francese Présent, dom Louis-Marie Geyer d’Orth – abate del monastero di Le Barroux – constatava: “Quando si guarda alla storia della Chiesa, si constatano due tendenze. La prima è quella dell’unità del rito. (…) Per fare questo, servirà tempo e lavoro negli spiriti e nei testi. Un primo cantiere sarebbe quello di ridurre gli abusi da una parte e dall’altra, come si può riassumere con le parole del filosofo Gustave Thibon: ‘Non assolutizzare ciò che è relativo e non relativizzare ciò che è assoluto’; un secondo cantiere sarebbero taluni ritocchi nella ‘forma straordinaria’ come, per esempio, l’adozione di nuovi Prefazi e di nuovi santi, la possibilità delle letture in vernacolare e l’applicazione di alcune modifiche del 1964 e 1965, come dom Gérard ha fatto nel nostro monastero (…). D’altra parte, dev’essere promossa una riforma della riforma nella forma ordinaria del rito, comprensiva di un più ampio uso del latino, una più grande sacralità nei gesti, una ben maggiore precisione, un più ampio rispetto delle regole e soprattutto una manifestazione più netta della fede nella presenza reale. Rimane tuttavia uno spazio fra le due forme che mi sembra difficile ridurre totalmente. Riassumendo, riprendo l’espressione di dom François Cassingena-Trévedy, il quale presenta il messale del 1962 come quello del Cielo sulla terra (…) e quello del 1969 come del Cielo per la terra (…). Se si vuole ritrovare un’unità, occorrerà rimaneggiare tutto, ma progressivamente, onde non ricominciare una rivoluzione cerebrale e legalista. Ciò che mi appare tuttavia difficile. Comunque, io non ritengo che l’unità del rito sia un’esigenza per la Chiesa. La seconda tendenza che si constata nella storia è quella della pluralità dei riti. Basti pensare alla ventina di riti orientali e ai diversi riti latini (…). La forma straordinaria del rito romano può coesistere pienamente con la forma ordinaria, con la missione propria e indispensabile d’esprimere che, con la forma ordinaria, non si vuole rinnegare né il passato né il sacro. Il motu proprio Summorum pontificum, in qualche misura, vieta di celebrare il nuovo rito con uno spirito di rottura verso quello antico”.
La liturgia è azione di Cristo e della Chiesa; un dramma nel quale ci si cala e al quale si conforma il proprio modo di pensare, che scolpisce la nostra vita interiore, per mezzo di verità che i testi e i gesti veicolano – spesso in maniera simbolica o poetica – affinché eleviamo il nostro spirito a Dio e ci disponiamo a ricevere il suo amore nei suoi sacramenti. La Regola di san Benedetto c’intima non a caso in tal senso: “partecipiamo alla salmodia in modo tale che l’intima disposizione dell’animo si armonizzi con la nostra voce” (RB XIX,7).

giovedì 5 novembre 2009

L’equilibrio in altitudine. Meditazioni sulla Regola / ultima parte

Senza dubbio vi sono degli elementi caduci nella Regola. Talune cortecce cadono, la linfa rimane…
Il giovane citato in precedenza si è mostrato scioccato dalle prescrizioni riguardanti le punizioni corporali. Ho concesso che non siamo più nel secolo VI e che immagino a fatica l’uso delle discipline in un monastero contemporaneo.
Ma si può parlare senza arrossire — o senza ridere — di un autentico addolcimento dei costumi? La nostra epoca — quella dei figli viziati, dell’assistenza generalizzata, della «comprensione» ammorbidita della giustizia penale, ecc. — non è anche quella degli aborti in serie, dei genocidi di massa, dei campi di concentramento e di morte, del terrorismo politico, della tortura scientifica? Che peso hanno le povere vergini di san Benedetto comparate a un tale diluvio di orrori? Un po’ di pudore non guasterebbe. La peggior forma d’ipocrisia è usare la trave nel nostro occhio come una lente d’ingrandimento per esagerare le dimensioni delle pagliuzze che offuscavano lo sguardo dei nostri antenati. Riflesso infantile d’autodifesa e d’autogiustificazione tramite il quale il nostro tempo si dà una buona coscienza conciliando, al prezzo di una menzogna, la propria fede nel progresso e la propria regressione verso la barbarie…
L’equilibrio in altitudine. Più il fine dell’ascesa è elevato, più va prestata attenzione alle leggi della pesantezza. Il pericolo di caduta è diversamente grave per l’alpinista e per il camminatore di pianura.
Le minuzie della Regola assicurano questo equilibrio, senza il quale ci si espone al rischio di cadere ai primi gradini, o a non salire che in sogno. Un tempo ho detto che solo l’infinito ci dà la chiave della misura. Si può girare la proposizione e affermare che la misura ci dà la chiave dell’infinito. La regola emana dal confluire di queste due evidenze: essa ci vaccina contro la tentazione della dismisura, quel falso infinito odiato dei Greci che Maurras qualificava come osceno, e che tradisce sia la terra sia il cielo.
Il termine del viaggio è in cielo; la rotta è sulla terra e l’uomo vi sale con tutto il suo peso. La Regola traccia e consolida la via stretta che conduce alla Patria senza frontiere. Essa non sopprime la pesantezza: ne previene gli effetti negativi legandola all’attrazione dell’imponderabile divino.
È per questo capolavoro di armonia fra le leggi della natura e il mistero della grazia che san Benedetto rimane, al di là e all’interno di tutti i secoli, una delle guide supreme dell’umanità in cammino verso la salvezza.
Nel quinto centenario della sua nascita e in un mondo già raggiunto e minacciato nel suo insieme da una nuova barbarie più impietosa di quella dell’Alto Medioevo, l’immagine tutelare del Patriarca e del suo gregge emerge come la visione dell’Arca sulle acque del diluvio. Mi tornano alla mente i versi che gli dedicava all’inizio del secolo XX il poeta Le Cardonnel:

Tu regardes les flots échappés de ton urne
Aux horizons lointains de l’esapce et du temps
Miséricordieux, sévère et taciturne.

Orizzonti dove lo spazio confina con l’infinito e il tempo con l’eternità.

[Gustave Thibon (1903-2001), L'équilibre dans l'altitude. Méditations sur la Règle, in Itinéraires, n. 246, settembre-ottobre 1980, pp. 71-77 (qui pp. 76-77), trad. it di fr. Romualdo Obl.S.B. - 6 / fine]

Benedictus - Scritti spirituali

Com’è noto ai fedeli legati alla forma straordinaria del Rito romano, da molti l’anni l’abbazia benedettina Sainte-Madeleine di Le Barroux, in Provenza, costituisce un centro spirituale particolarmente significativo per lo sforzo di fedeltà alla Regola di san Benedetto e l’irradiamento della liturgia gregoriana, così perpetuando la grande tradizione del monachesimo occidentale in pieno secolo XXI. Le Éditions Sainte-Madeleine hanno pubblicato il primo volume degli scritti spirituali di dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), fondatore e primo abate del monastero: Benedictus. Ecrits Spirituels. Tome I (244 pagine, euro 20). Dom Gérard amava profondamente la Santa Liturgia, amava “scrutarla”, “soppesarla”, per estrarne tutta l’insondabile ricchezza e quindi condividerla. In questo libro sono riuniti gli scritti spirituali di dom Gérard comparsi nel periodico Itinéraires. Il volume è acquistabile online, nella sezione “boutique en ligne”, tramite il sito Internet dell’abbazia.

martedì 3 novembre 2009

Del vero amore verso Dio

Perché quest'amore sia sodo deve portarvi efficacemente ad adempiere la volontà di Dio in tutte le cose con inviolabile fedeltà; a schivare qualunque peccato per leggiero vi sembri; a fare tutte le vostre operazioni per Dio, riferendole alla di lui gloria; a profittare di tutte le occasioni di servirlo, e a fare tutto quello, che conoscete dover essergli più grato, sebbene per altro a ciò non siate tenute; a staccare il vostro cuore da tutte le creature per attaccarvi unicamente a Dio; ad occuparvi sempre in lui, ponendo tutte le vostre delizie in trattenervi con esso; a tollerare per amore di lui tutto quello, che vi avviene di noioso, e a fargliene un sacrificio; a stare ferme e costanti nella pratica della virtù, malgrado tutte le difficoltà, tutte le tentazioni del Demonio, tutte le lusinghe delle creature; a odiarvi, sprezzarvi e perseguitarvi sempre per far morire in voi l'uomo antico, distruggere l'amor proprio e sacrificarvi come Ostia vivente alla gloria del Signore. Ogni amore, che non ha queste qualità, o che non si affatica per acquistarle non è il vero amore.

[Manoscritto non datato, ca. XVIII-XIX secolo, conservato nel retro di copertina del Memoriale di alcune cose notabili del monastero di San Benedetto: memorie pure delle capitoli che si fanno in detto monastero, Archivio del monastero di S. Benedetto in Bergamo]

domenica 1 novembre 2009

L’equilibrio in altitudine. Meditazioni sulla Regola / quinta parte

La Regola, a immagine della vita, è ferma nel suo principio e docile nelle sue applicazioni. Sono meravigliato, rileggendola, dallo spirito di moderazione che tempera e — se posso così dire — lubrifica i precetti più severi. La migliore bilancia è quella più sensibile alle differenze dei pesi. San Benedetto non perde mai di vista la diversità degli esseri e delle circostanze: ogni pagina della Regola testimonia di quest’attenzione vigilante al concreto e al dettaglio: si rileggano, per esempio, le righe dedicate alla misura del cibo e delle bevande, alla cura dei malati, ai lavori manuali, ecc. E se la bilancia — la cui giustezza è il simbolo della giustizia — deve pendere un poco, è nel senso dell’indulgenza e della misericordia: «semper superexaltet misericordiam judicio», è prescritto agli abati.

Regola di vita e regola viva. Il nostro tempo ripudia volentieri le discipline morali e spirituali come contrarie alla libertà e alla «fioritura» dell’uomo. In realtà, non abbiamo più autentica libertà perché non abbiamo più vere regole. E quanto alla fioritura permanente, non esiste che per i fiori artificiali, che non alimentano alcuna linfa e che non danno né frutto né seme. Non si sfugge alla regola: non si ha scelta che fra la regola viva e vivificante e la regola morta e mortificata. Il Giano contemporaneo ci offre due volti ugualmente distorti: da un lato la smorfia mobile della licenza e del caos; dall’altro la smorfia congelata dell’ordine burocratico che sostituisce le regole con i regolamenti e le forme — nell’accezione aristotelica del termine — con le formalità, scheletro prefabbricato per gl’invertebrati della libertà. Un solo esempio per illustrare tale contrasto: la pornografia e l’aborto sono permessi, quando non incoraggiati, ma non si ha il diritto di rifiutare le vaccinazioni o di circolare in auto senza cintura; si può corrompere e uccidere, ma non disporre del proprio corpo…

[Gustave Thibon (1903-2001), L'équilibre dans l'altitude. Méditations sur la Règle, in Itinéraires, n. 246, settembre-ottobre 1980, pp. 71-77 (qui pp. 75-76), trad. it di fr. Romualdo Obl.S.B. - 5 / segue]

giovedì 29 ottobre 2009

Assuefatto a sopportare e a perdonare

Catechesi di Benedetto XVI di mercoledì 14 ottobre 2009, quando il Papa si è soffermato sulla figura di Pietro il Venerabile.

Cari fratelli e sorelle,
la figura di Pietro il Venerabile, che vorrei presentare nell’odierna catechesi, ci riconduce alla celebre abbazia di Cluny, al suo «decoro» (decor) e al suo «nitore» (nitor) – per usare termini ricorrenti nei testi cluniacensi – decoro e splendore, che si ammirano soprattutto nella bellezza della liturgia, via privilegiata per giungere a Dio. Più ancora che questi aspetti, però, la personalità di Pietro richiama la santità dei grandi abati cluniacensi: a Cluny “non ci fu un solo abate che non sia stato un santo”, affermava nel 1080 il Papa Gregorio VII. Tra questi si colloca Pietro il Venerabile, il quale raccoglie in sé un po’ tutte le virtù dei suoi predecessori, sebbene già con lui Cluny, di fronte agli Ordini nuovi come quello di Cîteaux, inizi a risentire qualche sintomo di crisi. Pietro è un esempio mirabile di asceta rigoroso con se stesso e comprensivo con gli altri. Nato attorno al 1094 nella regione francese dell’Alvernia, entrò bambino nel monastero di Sauxillanges, ove divenne monaco professo e poi priore. Nel 1122 fu eletto Abate di Cluny, e in tale carica rimase fino alla morte, avvenuta nel giorno di Natale del 1156, come egli aveva desiderato. “Amante della pace – scrive il suo biografo Rodolfo – ottenne la pace nella gloria di Dio il giorno della pace” (Vita, I,17: PL 189,28).
Quanti lo conobbero ne esaltarono la signorile mitezza, il sereno equilibrio, il dominio di sé, la rettitudine, la lealtà, la lucidità e la speciale attitudine a mediare. “È nella mia stessa natura – scriveva - di essere alquanto portato all’indulgenza; a ciò mi incita la mia abitudine a perdonare. Sono assuefatto a sopportare e a perdonare” (Ep. 192, in: The Letters of Peter the Venerable, Harvard University Press, 1967, p. 446). Diceva ancora: “Con quelli che odiano la pace vorremmo, possibilmente, sempre essere pacifici” (Ep. 100, l.c., p. 261). E scriveva di sé: “Non sono di quelli che non sono contenti della loro sorte, … il cui spirito è sempre nell’ansia o nel dubbio, e che si lamentano perché tutti gli altri si riposano e loro sono i soli a lavorare” (Ep. 182, p. 425). Di indole sensibile e affettuosa, sapeva congiungere l’amore per il Signore con la tenerezza verso i familiari, particolarmente verso la madre, e verso gli amici. Fu un cultore dell’amicizia, in modo speciale nei confronti dei suoi monaci, che abitualmente si confidavano con lui, sicuri di essere accolti e compresi. Secondo la testimonianza del biografo, “non disprezzava e non respingeva nessuno” (Vita, I,3: PL 189,19); “appariva a tutti amabile; nella sua bontà innata era aperto a tutti” (ibid., I,1: PL 189,17).
Potremmo dire che questo santo Abate costituisce un esempio anche per i monaci e i cristiani di questo nostro tempo, segnato da un ritmo di vita frenetico, dove non rari sono gli episodi di intolleranza e di incomunicabilità, le divisioni e i conflitti. La sua testimonianza ci invita a saper unire l’amore a Dio con l’amore al prossimo, e a non stancarci nel riannodare rapporti di fraternità e di riconciliazione. Così in effetti agiva Pietro il Venerabile, che si trovò a guidare il monastero di Cluny in anni non molto tranquilli per varie ragioni esterne e interne all’Abbazia, riuscendo ad essere al tempo stesso severo e dotato di profonda umanità. Soleva dire: “Da un uomo si potrà ottenere di più tollerandolo, che non irritandolo con le lamentele” (Ep. 172, l.c., p. 409). In ragione del suo ufficio dovette affrontare frequenti viaggi in Italia, in Inghilterra, in Germania, in Spagna. L’abbandono forzato della quiete contemplativa gli pesava. Confessava: “Vado da un luogo all’altro, mi affanno, mi inquieto, mi tormento, trascinato qua e là; ho la mente rivolta ora agli affari miei ora a quelli degli altri, non senza grande agitazione del mio animo” (Ep. 91, l.c., p. 233). Pur dovendosi destreggiare tra poteri e signorie che circondavano Cluny, riuscì comunque, grazie al suo senso della misura, alla sua magnanimità e al suo realismo, a conservare un’abituale tranquillità. Tra le personalità con cui entrò in relazione ci fu Bernardo di Clairvaux con il quale intrattenne un rapporto di crescente amicizia, pur nella diversità del temperamento e delle prospettive. Bernardo lo definiva: “uomo importante, occupato in faccende importanti” e aveva grande stima di lui (Ep. 147, ed. Scriptorium Claravallense, Milano 1986, VI/1, pp. 658-660), mentre Pietro il Venerabile definiva Bernardo “lucerna della Chiesa” (Ep. 164, p. 396), “forte e splendida colonna dell’ordine monastico e di tutta la Chiesa” (Ep. 175, p. 418).
Con vivo senso ecclesiale, Pietro il Venerabile affermava che le vicende del popolo cristiano devono essere sentite nell’“intimo del cuore” da quanti si annoverano “tra i membri del corpo di Cristo” (Ep. 164, l.c., p. 397). E aggiungeva: “Non è alimentato dallo spirito di Cristo chi non sente le ferite del corpo di Cristo”, ovunque esse si producano (ibid.). Mostrava inoltre cura e sollecitudine anche per chi era al di fuori della Chiesa, in particolare per gli ebrei e i musulmani: per favorire la conoscenza di questi ultimi provvide a far tradurre il Corano. Osserva al riguardo uno storico recente: “In mezzo all’intransigenza degli uomini del Medioevo – anche dei più grandi tra essi –, noi ammiriamo qui un esempio sublime della delicatezza a cui conduce la carità cristiana” (J. Leclercq, Pietro il Venerabile, Jaca Book, 1991, p. 189). Altri aspetti della vita cristiana a lui cari erano l’amore per l’Eucaristia e la devozione verso la Vergine Maria. Sul Santissimo Sacramento ci ha lasciato pagine che costituiscono “uno dei capolavori della letteratura eucaristica di tutti i tempi” (ibid., p. 267), e sulla Madre di Dio ha scritto riflessioni illuminanti, contemplandola sempre in stretta relazione con Gesù Redentore e con la sua opera di salvezza. Basti riportare questa sua ispirata elevazione: “Salve, Vergine benedetta, che hai messo in fuga la maledizione. Salve, madre dell’Altissimo, sposa dell’Agnello mitissimo. Tu hai vinto il serpente, gli hai schiacciato il capo, quando il Dio da te generato lo ha annientato… Stella fulgente dell’oriente, che metti in fuga le ombre dell’occidente. Aurora che precede il sole, giorno che ignora la notte… Prega il Dio che da te è nato, perché sciolga il nostro peccato e, dopo il perdono, ci conceda la grazia e la gloria” (Carmina, PL 189, 1018-1019).
Pietro il Venerabile nutriva anche una predilezione per l’attività letteraria e ne possedeva il talento. Annotava le sue riflessioni, persuaso dell’importanza di usare la penna quasi come un aratro per “spargere nella carta il seme del Verbo” (Ep. 20, p. 38). Anche se non fu un teologo sistematico, fu un grande indagatore del mistero di Dio. La sua teologia affonda le radici nella preghiera, specie in quella liturgica e tra i misteri di Cristo, egli prediligeva quello della Trasfigurazione, nel quale già si prefigura la Risurrezione. Fu proprio lui ad introdurre a Cluny tale festa, componendone uno speciale ufficio, in cui si riflette la caratteristica pietà teologica di Pietro e dell’Ordine cluniacense, tesa tutta alla contemplazione del volto glorioso (gloriosa facies) di Cristo, trovandovi le ragioni di quell’ardente gioia che contrassegnava il suo spirito e si irradiava nella liturgia del monastero.
Cari fratelli e sorelle, questo santo monaco è certamente un grande esempio di santità monastica, alimentata alle sorgenti della tradizione benedettina. Per lui l’ideale del monaco consiste nell’“aderire tenacemente a Cristo” (Ep. 53, l.c., p. 161), in una vita claustrale contraddistinta dalla “umiltà monastica” (ibid.) e dalla laboriosità (Ep. 77, l.c., p. 211), come pure da un clima di silenziosa contemplazione e di costante lode a Dio. La prima e più importante occupazione del monaco, secondo Pietro di Cluny, è la celebrazione solenne dell’ufficio divino – “opera celeste e di tutte la più utile” (Statuta, PL 189, I, 1026) – da accompagnare con la lettura, la meditazione, l’orazione personale e la penitenza osservata con discrezione (cfr Ep. 20, l.c., p. 40). In questo modo tutta la vita risulta pervasa di amore profondo per Dio e di amore per gli altri, un amore che si esprime nella sincera apertura al prossimo, nel perdono e nella ricerca della pace. Potremmo dire, concludendo, che se questo stile di vita unito al lavoro quotidiano, costituisce, per san Benedetto, l’ideale del monaco, esso concerne anche tutti noi, può essere, in grande misura, lo stile di vita del cristiano che vuole diventare autentico discepolo di Cristo, caratterizzato proprio dall’adesione tenace a Lui, dall’umiltà, dalla laboriosità e dalla capacità di perdono e di pace.

martedì 27 ottobre 2009

La stabilità benedettina

Non fu san Benedetto a inventare il cenobitismo. Ben prima di lui, al tempo di sant’Antonio, esisteva il costume di riunirsi fra discepoli attorno a un maestro al fine di cercare il cammino della perfezione nella vita comune. E negli Atti degli Apostoli percepiamo un affresco di tale cenobitismo primitivo: «Tutti i credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune; vendevano le loro proprietà e sostanze e le dividevano con tutti, secondo il bisogno di ciascuno. Ogni giorno erano perseveranti insieme nel tempio e, spezzando il pane nelle case, prendevano cibo con letizia e semplicità di cuore, lodando Dio e godendo il favore di tutto il popolo. Intanto il Signore ogni giorno aggiungeva alla comunità quelli che erano salvati» (At 2,44-47).
Non fu san Benedetto il primo a scrivere una regola per i monaci; prima di lui san Pacomio e san Basilio avevano già legiferato per alcune comunità religiose. Ma fu certamente san Benedetto a confermare il cenobitismo nei suoi fondamenti, così come esso si mantiene ancora al giorno d’oggi. Il commento alla Regola di san Benedetto mostra le tre caratteristiche di questa riforma.
Essa è anzitutto un’opera di precisione, perché la Regola è chiara e netta. Il postulante, sin dai primi giorni, apprende la legge sotto la quale va a militare: «Ecce lex sub qua militare vis» (RB LVIII,9). E così conosce le esigenze alle quali va a fare professione.
Il secondo elemento è la discrezione. San Benedetto non esige alcuna austerità straordinaria. Prevede gli alimenti, il sonno, e divide egli stesso l’orario della preghiera, del lavoro, della lettura. La Santa Regola non è concepita per degli eroi o campioni dell’austerità e della penitenza come accade in san Colombano, né per un’élite intellettuale come accade in Cassiodoro. Insomma, questa Regola non vuole prescrivere nulla di duro o penoso; l’abate deve avere coscienza della fragilità terrestre, disponendo le cose con moderazione e discernimento, in maniera tale che le anime si salvino, che i forti desiderino fare di più, e che i deboli non si scoraggino.
Ma ecco il terzo elemento segnalato nella Regola: la stabilità. Essa contraddistingue in maniera decisiva l’opera propria di san Benedetto. Sin dal primo capitolo della Regola, egli analizza le quattro categorie di monaci e fa l’elogio di quella fortissima e valorosa dei cenobiti, «che vivono in un monastero, militando sotto una regola e un abate» (RB I,2). In questa definizione sono già insiti gli elementi che costituiscono l’oggetto dei tre voti: la stabilità nel monastero, la conversione dei costumi, l’obbedienza. Si può tuttavia ritenere che il voto di stabilità sia la chiave del monachesimo occidentale.

[Gustave Corção (1896-1978), La stabilité bénédictine, in Itinéraires, n. 246, settembre-ottobre 1980, pp. 39-50 (qui pp. 44-45), trad. it di fr. Romualdo Obl.S.B.]

domenica 25 ottobre 2009

La regalità di Gesù Cristo

(...) Parimenti si dica della regalità di Cristo. Non si tratta di un concetto umano destinato all'abbellimento del culto dovuto al messia. Si tratta si una realtà che s'identifica con il mistero dell'Uomo-Dio. Non si parla della regalità del Signore Gesù Cristo che per sottolineare il carattere divino e trascendente collegato alla sua persona e al mistero del suo governo, del quale nessuna signoria terrestre ci darà mai l'idea. Non si dovrebbe pronunciare il nome della regalità che con tremore. Un tremore d'amore, perché questa regalità non ha altro significato che di estendere sino a noi gli effetti di una carità infinita; un tremore di timore reverenziale, perché tutte le cose sono sospese al suo volere.

Bisogna anzitutto ammettere che la regalità dell'Uomo-Dio si estende sull'opera immensa dell'universo cosmico. Il mondo non è stato fatto che per parlarci di Lui. Egli è il Verbo che ha organizzato il caos primordiale, il Redentore che restaura tutte le cose nel mistero di una più elevata armonia. Che il Cristo, re universale, sia un re vittorioso - Rex triumphator -, giudice dei vivi e dei morti, unico capace di sciogliere i sigilli del libro impenetrabile dal quale, alla fine dei tempi, l'umanità riunita in un universo trasfigurato ascolterà con stupore la lettura della propria storia, dovrebbe trasportarci con allegria. Vi è in ciò una verità evidente, una verità rivelata dalla Sacra Scrittura, una verità innalzata davanti agli occhi dei martiri della Chiesa primitiva come un'icona annunciatrice della gloria, e celebrata per la nostra consolazione nel corso dell'anno liturgico.

Ciò nonostante Gesù cerca in primo luogo di regnare nel segreto dell'anima. Il Kyrios pantocrator, miracolo incomprensibile, Lui la cui mano sostiene l'universo, si avvicina alla sua creatura e gli sussurra: "Figlio mio, dammi il tuo cuore".

[Dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), Demain la Chrétienté, 2a ed., Dismas, Dion-Valmont 1988, pp. 94-95, trad. it di fr. Romualdo Obl.S.B.]

giovedì 22 ottobre 2009

Il segreto dei monaci

Il segreto dei monaci? Nessuno, capitelo bene, da venti secoli nessuno ha svelato il segreto dei monaci. La loro gioia e il loro tormento, la loro angoscia, la loro inquietudine bruciante e il lento possesso di una pace conquistata; tutto questo, mescolato finalmente alla loro azione di grazie, essi portano con sé sorridendo nella tomba. Che pretesa sarebbe la nostra se volessimo parlare di ciò che, per definizione, sfugge al discorso! Dio non si racconta. L'apostolo parla, il contemplativo tace.
Conoscete il ruolo che svolge la mania nel teatro greco. Gl'insensati vi sono trattati come i messaggeri degli dei, poiché ciò che dicono è impenetrabile e non può venire che da un altro mondo. Ma ciò che impressionava tanto i Greci, oggi non interessa più a nessuno. Chi si preoccupa di un altro mondo? Gli uomini hanno paura dell'ignoto e lo allontanano dalla propria visuale. Quest'altro mondo, che dovrebbe essere l'atmosfera dell'anima battezzata, il suo centro vitale, il suo respiro felice, quest'altro mondo è così inaccessibile all'uomo moderno come lo era la Realtà ai prigionieri della caverna, condannati a guardare sui muri le ombre che gesticolavano. Per parlare agli uomini della Realtà bisognerebbe essere un visionario o un profeta. Taluni di noi hanno scritto quello che hanno visto, ma ciò non ha che valore di simbolo, come la geometria astratta. Cercheremo piuttosto di convincere i nostri fratelli del secolo a spezzare i lacci, a voltarsi, a cambiare posizione, a rischio di rompersi le ossa. Questo voltarsi doloroso implica nel contempo un cambiamento di posizione e d'illuminazione. Si tratta della conversione, parola essenziale che presso gli antichi designava lo stato monastico. Mi direte: ma, sin qui ci era stato detto che i monaci avevano fondato una civiltà, che avevano trasmesso la cultura antica, ricopiato i manoscritti, prosciugato le paludi. Le abbazie ci vengono presentate come accademie della scienza - come direbbe Jean Guitton, delle centrali nucleari dello spirito -, l'Europa medievale ricoperta da un bianco mantello di monasteri: è una stampa di Epinal? No, ma è la verità della storia.
La storia ha contato a Saint-Benoit-sur-Loire più di 5.000 studenti; nel X secolo l'abbazia Saint-Germain d'Auxerre riceve 2.000 allievi e 600 religiosi. Gerbert, pastorello dell'Auvergne che diventerà il più grande sapiente del suo tempo, lascia il suo monastero per andare a studiare la matematica a Barcellona, dirige le scuole di Reims e favorisce l'elezione di Ugo Capeto, poi diventa precettore dell'imperatore di Germania, e termina al soglio di Pietro con il nome di Silvestro II. Ecco dunque dei monaci sapienti, uomini di cultura e civiltà, monasteri elevarsi come moli di pace e stabilità. Cluny diventa, ci dice Edmond Pognon, la capitale del più vasto impero monastico che la cristianità abbia mai conosciuto; lo storico ce ne dà una descrizione ammirevole: "Cluny è la forza nuova, pura e impietosa, che deve sbriciolare i quadri impolverati della società cristiana e fare regnare ovunque la virtù e il timore di Dio". Nel secolo XIV, più di 1.400 case dipendevano dalla celebre abbazia. Tutto questo è vero, è la storia, sono le cifre, è quanto può essere raccontato. E ancora bisognerebbe aggiungere, per correttezza, l'irradiamento umano e soprannaturale dei grandi abati di Cluny, provvidenza dei poveri, consiglieri dei Papi, riconciliatori dei principi. Ecco qualcosa non privo di grandezza: nessuno fra noi che non valuti la sproporzione flagrante fra le nostre pallide realizzazioni e i vertici raggiunti dagli antichi monaci.
Eppure noi siamo più prossimi a loro di quanto non appaia, ma per un'altra ragione. Per quale mistero un gran signore o un vescovo venivano a nascondere la propria identità per vivere a Cluny nell'anonimato, come dei semplici guardiani di porcile? Ve ne darò la ragione, ma è una ragione che affonda essa stessa nel mistero delle anime: è la sete. La sete di non essere niente affinché Dio sia tutto, l'abbandono di ciò che non è eterno, il desiderio di un faccia a faccia silenzioso nella fede con il Cristo restauratore dell'universo, che trasformerà il nostro corpo di miseria per configurarlo al suo corpo di gloria.

[Dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), Le secret des moines, postfazione a Marc Dem, Dom Gérard et l'aventure monastique, Plon, Parigi 1988, pp. 193-198, ripreso in La vocation monastique, Editions Sainte-Madeleine, Le Barroux 1990, pp. 39-47, e infine in Les amis du monastère, n. 126, giugno 2008, pp. 5-7 (qui p. 5), trad. it di fr. Romualdo Obl.S.B. - 1 / segue]

Mel in ore, in aure melos, in corde iubilum

Catechesi di Benedetto XVI di mercoledì 21 ottobre 2009, quando il Papa, continuando il ciclo sui Padri della Chiesa, si è soffermato sulla figura di San Bernardo di Chiaravalle.


Cari fratelli e sorelle,

oggi vorrei parlare su san Bernardo di Chiaravalle, chiamato “l’ultimo dei Padri” della Chiesa, perché nel XII secolo, ancora una volta, rinnovò e rese presente la grande teologia dei Padri. Non conosciamo in dettaglio gli anni della sua fanciullezza; sappiamo comunque che egli nacque nel 1090 a Fontaines in Francia, in una famiglia numerosa e discretamente agiata. Giovanetto, si prodigò nello studio delle cosiddette arti liberali – specialmente della grammatica, della retorica e della dialettica – presso la scuola dei Canonici della chiesa di Saint-Vorles, a Châtillon-sur-Seine e maturò lentamente la decisione di entrare nella vita religiosa. Intorno ai vent’anni entrò a Cîteaux, una fondazione monastica nuova, più agile rispetto agli antichi e venerabili monasteri di allora e, al tempo stesso, più rigorosa nella pratica dei consigli evangelici. Qualche anno più tardi, nel 1115, Bernardo venne inviato da santo Stefano Harding, terzo Abate di Cîteaux, a fondare il monastero di Chiaravalle (Clairvaux). Qui il giovane Abate, aveva solo venticinque anni, poté affinare la propria concezione della vita monastica, e impegnarsi nel tradurla in pratica. Guardando alla disciplina di altri monasteri, Bernardo richiamò con decisione la necessità di una vita sobria e misurata, nella mensa come negli indumenti e negli edifici monastici, raccomandando il sostentamento e la cura dei poveri. Intanto la comunità di Chiaravalle diventava sempre più numerosa, e moltiplicava le sue fondazioni.

In quegli stessi anni, prima del 1130, Bernardo avviò una vasta corrispondenza con molte persone, sia importanti che di modeste condizioni sociali. Alle tante Lettere di questo periodo bisogna aggiungere numerosi Sermoni, come anche Sentenze e Trattati. Sempre a questo tempo risale la grande amicizia di Bernardo con Guglielmo, Abate di Saint-Thierry, e con Guglielmo di Champeaux, figure tra le più importanti del XII secolo. Dal 1130 in poi, iniziò a occuparsi di non pochi e gravi questioni della Santa Sede e della Chiesa. Per tale motivo dovette sempre più spesso uscire dal suo monastero, e talvolta fuori dalla Francia. Fondò anche alcuni monasteri femminili, e fu protagonista di un vivace epistolario con Pietro il Venerabile, Abate di Cluny, sul quale ho parlato mercoledì scorso. Diresse soprattutto i suoi scritti polemici contro Abelardo, un grande pensatore che ha iniziato un nuovo modo di fare teologia, introducendo soprattutto il metodo dialettico-filosofico nella costruzione del pensiero teologico. Un altro fronte contro il quale Bernardo ha lottato è stata l’eresia dei Catari, che disprezzavano la materia e il corpo umano, disprezzando, di conseguenza, il Creatore. Egli, invece, si sentì in dovere di prendere le difese degli ebrei, condannando i sempre più diffusi rigurgiti di antisemitismo. Per quest’ultimo aspetto della sua azione apostolica, alcune decine di anni più tardi, Ephraim, rabbino di Bonn, indirizzò a Bernardo un vibrante omaggio. In quel medesimo periodo il santo Abate scrisse le sue opere più famose, come i celeberrimi Sermoni sul Cantico dei Cantici. Negli ultimi anni della sua vita – la sua morte sopravvenne nel 1153 – Bernardo dovette limitare i viaggi, senza peraltro interromperli del tutto. Ne approfittò per rivedere definitivamente il complesso delle Lettere, dei Sermoni e dei Trattati. Merita di essere menzionato un libro abbastanza particolare, che egli terminò proprio in questo periodo, nel 1145, quando un suo allievo, Bernardo Pignatelli, fu eletto Papa col nome di Eugenio III. In questa circostanza, Bernardo, in qualità di Padre spirituale, scrisse a questo suo figlio spirituale il testo De Consideratione, che contiene insegnamenti per poter essere un buon Papa. In questo libro, che rimane una lettura conveniente per i Papi di tutti i tempi, Bernardo non indica soltanto come fare bene il Papa, ma esprime anche una profonda visione del mistero della Chiesa e del mistero di Cristo, che si risolve, alla fine, nella contemplazione del mistero di Dio trino e uno: “Dovrebbe proseguire ancora la ricerca di questo Dio, che non è ancora abbastanza cercato”, scrive il santo Abate “ma forse si può cercare meglio e trovare più facilmente con la preghiera che con la discussione. Mettiamo allora qui termine al libro, ma non alla ricerca” (XIV, 32: PL 182, 808), all’essere in cammino verso Dio.

Vorrei ora soffermarmi solo su due aspetti centrali della ricca dottrina di Bernardo: essi riguardano Gesù Cristo e Maria santissima, sua Madre. La sua sollecitudine per l’intima e vitale partecipazione del cristiano all’amore di Dio in Gesù Cristo non porta orientamenti nuovi nello statuto scientifico della teologia. Ma, in maniera più che mai decisa, l’Abate di Clairvaux configura il teologo al contemplativo e al mistico. Solo Gesù – insiste Bernardo dinanzi ai complessi ragionamenti dialettici del suo tempo – solo Gesù è “miele alla bocca, cantico all’orecchio, giubilo nel cuore (mel in ore, in aure melos, in corde iubilum)”. Viene proprio da qui il titolo, a lui attribuito dalla tradizione, di Doctor mellifluus: la sua lode di Gesù Cristo, infatti, “scorre come il miele”. Nelle estenuanti battaglie tra nominalisti e realisti – due correnti filosofiche dell’epoca - l’Abate di Chiaravalle non si stanca di ripetere che uno solo è il nome che conta, quello di Gesù Nazareno. “Arido è ogni cibo dell’anima”, confessa, “se non è irrorato con questo olio; insipido, se non è condito con questo sale. Quello che scrivi non ha sapore per me, se non vi avrò letto Gesù”. E conclude: “Quando discuti o parli, nulla ha sapore per me, se non vi avrò sentito risuonare il nome di Gesù” (Sermones in Cantica Canticorum XV, 6: PL 183,847). Per Bernardo, infatti, la vera conoscenza di Dio consiste nell’esperienza personale, profonda di Gesù Cristo e del suo amore. E questo, cari fratelli e sorelle, vale per ogni cristiano: la fede è anzitutto incontro personale, intimo con Gesù, è fare esperienza della sua vicinanza, della sua amicizia, del suo amore, e solo così si impara a conoscerlo sempre di più, ad amarlo e seguirlo sempre più. Che questo possa avvenire per ciascuno di noi!

In un altro celebre Sermone nella domenica fra l’ottava dell’Assunzione, il santo Abate descrive in termini appassionati l’intima partecipazione di Maria al sacrificio redentore del Figlio. “O santa Madre, - egli esclama - veramente una spada ha trapassato la tua anima!... A tal punto la violenza del dolore ha trapassato la tua anima, che a ragione noi ti possiamo chiamare più che martire, perché in te la partecipazione alla passione del Figlio superò di molto nell’intensità le sofferenze fisiche del martirio” (14: PL 183,437-438). Bernardo non ha dubbi: “per Mariam ad Iesum”, attraverso Maria siamo condotti a Gesù. Egli attesta con chiarezza la subordinazione di Maria a Gesù, secondo i fondamenti della mariologia tradizionale. Ma il corpo del Sermone documenta anche il posto privilegiato della Vergine nell’economia della salvezza, a seguito della particolarissima partecipazione della Madre (compassio) al sacrificio del Figlio. Non per nulla, un secolo e mezzo dopo la morte di Bernardo, Dante Alighieri, nell’ultimo canto della Divina Commedia, metterà sulle labbra del “Dottore mellifluo” la sublime preghiera a Maria: “Vergine Madre, figlia del tuo Figlio,/umile ed alta più che creatura,/termine fisso d’eterno consiglio, …” (Paradiso 33, vv. 1ss.).

Queste riflessioni, caratteristiche di un innamorato di Gesù e di Maria come san Bernardo, provocano ancor oggi in maniera salutare non solo i teologi, ma tutti i credenti. A volte si pretende di risolvere le questioni fondamentali su Dio, sull’uomo e sul mondo con le sole forze della ragione. San Bernardo, invece, solidamente fondato sulla Bibbia e sui Padri della Chiesa, ci ricorda che senza una profonda fede in Dio, alimentata dalla preghiera e dalla contemplazione, da un intimo rapporto con il Signore, le nostre riflessioni sui misteri divini rischiano di diventare un vano esercizio intellettuale, e perdono la loro credibilità. La teologia rinvia alla “scienza dei santi”, alla loro intuizione dei misteri del Dio vivente, alla loro sapienza, dono dello Spirito Santo, che diventano punto di riferimento del pensiero teologico. Insieme a Bernardo di Chiaravalle, anche noi dobbiamo riconoscere che l’uomo cerca meglio e trova più facilmente Dio “con la preghiera che con la discussione”. Alla fine, la figura più vera del teologo e di ogni evangelizzatore rimane quella dell’apostolo Giovanni, che ha poggiato il suo capo sul cuore del Maestro.

Vorrei concludere queste riflessioni su san Bernardo con le invocazioni a Maria, che leggiamo in una sua bella omelia. “Nei pericoli, nelle angustie, nelle incertezze, - egli dice - pensa a Maria, invoca Maria. Ella non si parta mai dal tuo labbro, non si parta mai dal tuo cuore; e perché tu abbia ad ottenere l'aiuto della sua preghiera, non dimenticare mai l'esempio della sua vita. Se tu la segui, non puoi deviare; se tu la preghi, non puoi disperare; se tu pensi a lei, non puoi sbagliare. Se ella ti sorregge, non cadi; se ella ti protegge, non hai da temere; se ella ti guida, non ti stanchi; se ella ti è propizia, giungerai alla meta...” (Hom. II super «Missus est», 17: PL 183, 70-71).