venerdì 20 novembre 2009

Ai monaci e alle monache dell'Ordine di San Benedetto

Reverendi Padri, Reverende Madri,
Voi siete, secondo la volontà del vostro fondatore, il Patriarca dei monaci, una «scuola al servizio del Signore»: Dominici schola servitii. Fra le varie famiglie religiose della Chiesa, la vostra originalità consiste nell’esservi votati solo al Signore. Lo servite nella Lode, che san Benedetto chiama Opus Dei; e non vi è sufficiente che la Lode sia pura: volete che sia bella. Voi osservate alla lettera la parola del salmista – «Sette volte al giorno io ti lodo» – e date alla vostra lode le ali del canto. Nel nostro secolo trepidante, in cui tutta l’attività si sviluppa sotto il segno dell’utile, è bello che vi siano ancora uomini e donne che si consacrano a lodare Dio, che per fare questo abbandonano varie volte al giorno tutte le occupazioni e si dedicano alla Lode con gravità, con semplicità, per doversi occupare di una funzione sacra. In questo avete un’incontestabile vocazione nel nostro tempo. Mentre attorno a noi, e anche all’interno della Chiesa, siamo testimoni di un’incredibile svalutazione del sacro, voi soli rendete ancora il sacro sensibile. Lo rendete sensibile per la vostra attitudine, il vostro abito, il vostro incedere quando entrate in coro, mediante i saluti che vi scambiate mutualmente, e che distinguono così bene la dignità dell’uomo attore di un dramma sacro, attraverso l’economia così perfettamente calcolata dei gesti liturgici in cui non c’è alcun spazio per l’improvvisazione, ma che tutto significano, con l’armonia coreografica che presiede alle evoluzioni dell’officiante all’altare. Quando assisto a una Messa conventuale, la più semplice che sia – non dico un pontificale –, preferibilmente quando l’organo si ferma e lascia dei lunghi silenzi prima e dopo la consacrazione, Dio è per me più presente e la mia fede trova una certezza particolare. Quando vi si guarda, quando vi si ascolta, si ha la sensazione che ognuno dei vostri gesti e ogni vostra parola corrispondano a una realtà spirituale. Tali gesti e tali parole s’inscrivono in un insieme liturgico che è il mezzo scelto dalla Chiesa per elevare l’anima dei fedeli alla santità, per «rigenerare alla vita celeste», secondo la bella espressione di Pio XII nell’enciclica Mediator Dei. Questa elevazione per la quale una realtà naturale assume un senso sacro non è possibile che per la vostra fedeltà al principio di san Benedetto: «che l’intima disposizione dell’animo si armonizzi con la nostra voce». Perché è tramite il canto che si traduce la vostra lode. Per dare all’Ufficio divino tutta la sua purezza e perfezione, avete ristabilito le melodie sacre nel loro testo autentico, ciò che sarà l’onore del vostro Ordine in questo secolo. Senza dubbio voi portate il culto liturgico a un grado di perfezione che è difficile raggiungere in una qualsiasi parrocchia; ma non vi sono due liturgie, una per i monaci e un’altra per il popolo cristiano: tutto il popolo è stato invitato ad abbeverarsi alla medesima fonte di santità. Alcune parrocchie hanno dimostrato che, anche con mezzi ristretti, si può dare alla liturgia la grandezza e la nobiltà che essa richiede, ciò che è semplicemente una questione di educazione e di formazione dei fedeli. Noi che apparteniamo al popolo cristiano delle parrocchie, abbiamo certamente seguito in maniera inadeguata le vostre lezioni; ciò nonostante anche noi abbiamo la nostra esperienza e sappiamo senza dubbio che la grazia di Dio agisce per mezzo della preghiera liturgica, che agisce mediante il canto della Chiesa.

[André Charlier (1895-1971), Aux moines et aux moniales de l'Ordre de saint Benoît, articolo-appello del 1967 comparso nel volume Le chant grégorien edito da Dominique Martin Morin (Bouère), di cui una prima versione risale al marzo 1965 (Itinéraires, n. 91), poi in Itinéraires, n. 246, settembre-ottobre 1980, pp. 78-84 (qui pp. 79-80), trad. it di fr. Romualdo Obl.S.B. - 1 / continua]

giovedì 19 novembre 2009

Il demone meridiano

[Romualdica non è nato come quaderno delle proprie impressioni ed emozioni; non ce n’è il tempo, né la predisposizione. Scorgendo tuttavia un sole nero all’orizzonte, che rischia di rendere bui e senza gusto anche quegli aspetti che apparivano desiderabili, gradevoli, piacevoli, ho recuperato un articolo di un autore che per la lontananza della sua posizione dalla mia, me lo rende più vicino. S’invita, mi pare, a un cammino di umiltà e di povertà, affinché la positiva povertà della realtà – il lavoro, gli altri, le relazioni – diventi la preziosa ricchezza che aiuta a uscire da quella povertà lacerante, disperante e angosciosa, che è il demone meridiano]


Oggi l’accidia – dopo essere stata vittima di una prolungata amnesia per cui non si sapeva neppure più che tipo di malattia spirituale fosse – gode di un rinnovato e vasto interesse: ne parlano i filosofi, i sociologi e anche quanti si interessano alla spiritualità. In realtà non credo che siano molti a esercitarsi contro di essa con la lotta spirituale, non molti a conoscerla fino a farne una diagnostica personale, non molti, di conseguenza, ad avere esperienza della possibile vittoria su di essa. Inoltre, anche se molti sostengono di parlare e scrivere sull’accidia, sovente parlano e scrivono d’altro, finendo per confonderla con disagi e patologie differenti. Sì, l’accidia gode oggi di grande attenzione, eppure pochissimi ne parlano per conoscenza autentica, vissuta con la mente, il cuore, il corpo.
Cos’è, dunque, l’accidia o acedia? Akedia nel greco classico indica la mancanza, il venir meno di un interesse, un’attenzione, una sollecitudine: è quindi uno stato di scoraggiamento, di sconforto, un sentimento che rasenta la disperazione perché non si scorge più la possibilità di un senso e, dunque, di “salvezza”. Nella bibbia greca dei LXX c’è un’indicazione preziosa per individuare chi si trova nell’acedia. Il profeta anonimo, narrando la propria missione, proclama: “Lo spirito del Signore è su di me, perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione, mi ha mandato a portare la buona notizia ai miseri ... per allietare gli afflitti di Sion, per dare loro ... un canto di lode invece dello spirito di acedia” (Isaia 61,1-3). Nella tradizione cristiana, il primo a parlare dell’acedia è Origene che la indica come tentazione subita da Gesù nel deserto e la individua come assopimento, intontimento, perdita di vigilanza. Poco più tardi Evagrio identificherà l’acedia e la descriverà tra le otto passioni, le otto tentazioni contro le quali il monaco deve lottare: una dominante, una suggestione efficace, un “demonio” che assale tentando di invadere la persona fino a offuscare lo sguardo del cuore, fino a travolgerla per trascinarla ai bordi della patologia psichica grave, fino alla depressione. Sarà lo stesso Evagrio, riprendendo un’esegesi rabbinica al Salmo 91,6, a definire questa tentazione “demone meridiano” perché è proprio verso mezzogiorno – ora che nel deserto è particolarmente calda, afosa, ora in cui il peso del digiuno si fa sentire – che affiora nel cuore del monaco la domanda ossessiva: “Ma vale la pena? A che serve tanta fatica? Chi me lo fa fare?”. Chi conosce bene questa tentazione sa che si manifesta subito come patologia, come cattivo rapporto con lo spazio, e sa anche che ad essa si può aggiungere la tristezza – l’altra tentazione, parente così stretta dell’acedia che l’occidente le ha unificate in un unico “vizio capitale” – che è un cattivo rapporto con il tempo.
L’acedia è veramente il “male oscuro”: al suo apparire ispira un turbamento tra il nostro corpo e il nostro intelletto, tra lo spazio in cui siamo e la nostra persona: si cessa di habitare secum, non si riesce più ad abitare la solitudine, il deserto, il silenzio in una quiete pacificata e si tentano fughe da se stessi accompagnate da uno smarrimento di adesione alla realtà. L’ansia interiore viene percepita con disgusto spirituale, invade l’intera persona e diventa matrice di sensazioni e dominanti che possono condurre verso il vuoto, l’abisso, la “nientità”, il cinismo nei confronti della vita e degli altri; a volte invece prevale il sogno di una diversità impossibile, il pensiero di un “altrove” in una situazione irreale in cui non c’è più sforzo spirituale, né esercizio di vigilanza e neppure la presenza di Dio che pur si percepisce a tratti come schiacciante.
Così il sentimento dell’acedia si insinua nel cuore e poco alla volta lo occupa interamente a scapito di ogni altro sentimento perché non è una sensazione epidermica o superficiale ma sorge dalle profondità più nascoste e meno conosciute dell’essere umano. E’ una malattia radicale e cronica del cuore, uno stato d’animo che porta al disorientamento, alla de-costruzione di tutto ciò che si è fatto nella vita, alla de-vocazione di ciò che si è diventati. Evagrio dice che l’acedia ha il terribile potere di spegnere la luce di Dio negli occhi dell’uomo.
Questa tentazione, che l’essere umano ha sempre conosciuto, forse oggi si fa più frequente e intensa, soprattutto nel mondo occidentale: là dove non si è più assillati dalla fame e dalla lotta quotidiana per la sopravvivenza, ecco aprirsi lo spazio per desideri e bisogni che vanno al di là di quelli primari e che, proprio per questo, hanno in sé una vena di insaziabilità. Quando oggi si cerca di capire l’aumento di suicidi in tutte le fasce di età, la rivendicazione sempre più insistente ed esplicita di essere aiutati a morire senza sofferenza, la rimozione della morte per l’insostenibile pesantezza della sua realtà, allora bisognerebbe avere il coraggio di fare una diagnosi nella società e nella cultura e riconoscere che siamo in una società depressa, viziata dall’acedia, da questa malattia che impedisce il dinamismo dell’amare e dell’essere amati: nemmeno l’amore appare più credibile, nemmeno questo “vale la pena”. Umberto Galimberti chiama l’acedia “noia”, “vuoto intellettuale”, “malinconia”: espressioni che fanno riferimento non tanto a un vizio o a una nevrosi, ma piuttosto a un sentimento di “esilio sulla terra”. C’è del vero in questo, ma non si pensi che questa tentazione sia estranea a chi vive nella tensione verso “un altro cielo e un’altra terra”: l’acedia a volte è seduzione di ateismo e in questa particolare tentazione i monaci sono esperti proprio in virtù del loro esercitarsi a fare a meno di molte cose.
Atonia del cuore, asfissia dell’intelletto, paresi della volontà riducono l’uomo ad abitare zone infernali, a dimorare agli “inferi”, cioè in abissi di nonsenso dove l’uomo ha smarrito la sua dignità. Eppure, anche in questa situazione, la voce di Dio può risuonare e chiedere addirittura, come a Silvano del Monte Athos, di abitare agli inferi senza disperare! E’ un caso che santi della nostra epoca come Teresa di Lisieux e Silvano dell’Athos, santi che percepiamo così attuali, abbiano conosciuto questa tentazione fino ai bordi dell’inferno? Ma i padri del deserto di ieri e di oggi, i solitari capaci di discernimento, non solo conoscono questa tentazione e la sanno diagnosticare fin dai primi sintomi, ma – da autentici “cardiognostici”, conoscitori del cuore umano – sanno anche indicare i comportamenti atti a prevenirla e i rimedi adatti a curarla. Essi sanno che questa “passione” nasce innanzitutto in una vita vissuta alla giornata, una vita nutrita di spiritualità vagabonda in cui l’amore non è legato a una storia, a una vicenda ma solo all’istante e all’esperienza di un momento. Chi fa una vita obbediente solo a uno sfrenato attivismo – magari anche assunto “a fin di bene”, in favore degli altri – e non sa habitare secum per attingere alla sorgente, chi si sfibra in molteplici rapporti superficiali, chi non si esercita quotidianamente a discernere il proprio desiderio, la propria volontà, il proprio operare, assumendo fallimenti e riuscite, questi finirà per incontrare presto o tardi l’acedia nel suo devastante incedere.
Per questo i rimedi che i padri del deserto indicano per controllare e vincere questo demone hanno essenzialmente tutti a che fare con la vigilanza e il discernimento sulla volontà propria: l’invocazione del Nome di Gesù, la preghiera, l’assiduità alle sante Scritture, lo stare saldi senza inseguire il vento... E per questo io credo che il rimedio per eccellenza rimanga l’eucaristia: eucaristia come esercizio di rendimento di grazie, eucaristia come rapporto con le cose dono di Dio, eucaristia come strumento di comunione cristica e cosmica. Ora, l’acedia è l’esatto contrario dell’eucaristia, cioè dello spirito di ringraziamento: incapace di cogliere il rapporto con lo “spazio” e il senso delle cose, chi è preda dell’acedia vive nella a-charistia, nell’incapacità a stupirsi della bellezza, dell’amore e, quindi, nell’incapacità a rendere grazie. Come affermava già Giovanni Climaco: “nella solitudine, privi di consolazione, si è tentati dal demone dell’acedia e della acharistia”. Sì, l’acedia è non credere all’amore, mentre il cristiano dice con l’apostolo Giovanni “noi crediamo all’amore”!

[Enzo Bianchi, Scacco matto all’accidia, Avvenire, 6 maggio 2007]

mercoledì 18 novembre 2009

La Bellezza Immutabile

"Interroga la bellezza della terra, interroga la bellezza del mare, interroga la bellezza dell’aria diffusa e soffusa. Interroga la bellezza del cielo, interroga l’ordine delle stelle, interroga il sole, che col suo splendore rischiara il giorno; interroga la luna, che col suo chiarore modera le tenebre della notte. Interroga le fiere che si muovono nell'acqua, che camminano sulla terra, che volano nell'aria: anime che si nascondono, corpi che si mostrano; visibile che si fa guidare, invisibile che guida. Interrogali! Tutti ti risponderanno: Guardaci: siamo belli! La loro bellezza li fa conoscere. Questa bellezza mutevole chi l’ha creata, se non la Bellezza Immutabile?"

[Sant'Agostino, Sermo CCXLI, 2: PL 38, 1134]

venerdì 13 novembre 2009

Omnium Sanctorum O.S.B.

Nella famiglia monastica benedettina, il 13 novembre ricorre la festività di tutti i santi dell'Ordine (e l'indomani la commemorazione di tutti i defunti dell'Ordine). Il Prefazio della Messa propria è quello di san Benedetto, che viene inoltre recitato nelle festività di san Benedetto - il 21 marzo e l'11 luglio -, in quella di santa Scolastica - il 10 febbraio - e nelle Messe votive di san Benedetto.

Vere dignum et justum est, aequum et salutare, nos tibi semper et ubique gratias agere, Domine, sancte pater, omnipotens aeterne Deus: qui beatissimum confessorem tuum Benedictum, ducem et magistrum caelitus edoctum, innumerabili multitudini filiorum statuisti. Quem et omnium justorum spiritu repletum, et extra se raptum, luminis tui splendore collustrasti; ut in ipsa luce visionis intimae, mentis laxato sinu, quam angusta essent inferiora deprehenderet. Per Christum Dominum nostrum. Quapropter profusiis gaudiis, tutus in orbe terrarum monachorum coetus exsulta. Sed et supernae virtutes atque angelicae Potestates hymnum gloriae tuae concinunt, sine fine dicentes...

giovedì 12 novembre 2009

La riforma cluniacense

Catechesi di Benedetto XVI di mercoledì 11 novembre 2009.

Cari fratelli e sorelle,
questa mattina vorrei parlarvi di un movimento monastico che ebbe grande importanza nei secoli del Medioevo, e di cui ho già fatto cenno in precedenti catechesi. Si tratta dell’Ordine di Cluny, che, all’inizio del XII secolo, momento della sua massima espansione, contava quasi 1200 monasteri: una cifra veramente impressionante! A Cluny, proprio 1100 anni fa, nel 910, fu fondato un monastero posto sotto la guida dell’abate Bernone, in seguito alla donazione di Guglielmo il Pio, Duca di Aquitania. In quel momento il monachesimo occidentale, fiorito qualche secolo prima con san Benedetto, era molto decaduto per diverse cause: le instabili condizioni politiche e sociali dovute alle continue invasioni e devastazioni di popoli non integrati nel tessuto europeo, la povertà diffusa e soprattutto la dipendenza delle abbazie dai signori locali, che controllavano tutto ciò che apparteneva ai territori di loro competenza. In tale contesto, Cluny rappresentò l’anima di un profondo rinnovamento della vita monastica, per ricondurla alla sua ispirazione originaria.
A Cluny venne ripristinata l’osservanza della Regola di san Benedetto con alcuni adattamenti già introdotti da altri riformatori. Soprattutto si volle garantire il ruolo centrale che deve occupare la Liturgia nella vita cristiana. I monaci cluniacensi si dedicavano con amore e grande cura alla celebrazione delle Ore liturgiche, al canto dei Salmi, a processioni tanto devote quanto solenni e, soprattutto, alla celebrazione della Santa Messa. Promossero la musica sacra; vollero che l’architettura e l’arte contribuissero alla bellezza e alla solennità dei riti; arricchirono il calendario liturgico di celebrazioni speciali come, ad esempio, all’inizio di novembre, la Commemorazione dei fedeli defunti, che anche noi abbiamo da poco celebrato; incrementarono il culto della Vergine Maria. Fu riservata tanta importanza alla liturgia, perché i monaci di Cluny erano convinti che essa fosse partecipazione alla liturgia del Cielo. Ed i monaci si sentivano responsabili di intercedere presso l’altare di Dio per i vivi e per i defunti, dato che moltissimi fedeli chiedevano loro con insistenza di essere ricordati nella preghiera. Del resto, proprio con questo scopo Guglielmo il Pio aveva voluto la nascita dell’Abbazia di Cluny. Nell’antico documento, che ne attesta la fondazione, leggiamo: “Stabilisco con questo dono che a Cluny sia costruito un monastero di regolari in onore dei santi apostoli Pietro e Paolo, e che ivi si raccolgano monaci che vivono secondo la Regola di san Benedetto (…) che lì un venerabile asilo di preghiera con voti e suppliche sia frequentato, e si ricerchi e si brami con ogni desiderio e intimo ardore la vita celeste, e assiduamente orazioni, invocazioni e suppliche siano dirette al Signore”. Per custodire ed alimentare questo clima di preghiera, la regola cluniancense accentuò l’importanza del silenzio, alla cui disciplina i monaci si sottoponevano volentieri, convinti che la purezza delle virtù, a cui aspiravano, richiedeva un intimo e costante raccoglimento. Non meraviglia che ben presto una fama di santità avvolse il monastero di Cluny, e che molte altre comunità monastiche decisero di seguire le sue consuetudini. Molti principi e Papi chiesero agli abati di Cluny di diffondere la loro riforma, sicché in poco tempo si estese una fitta rete di monasteri legati a Cluny o con veri e propri vincoli giuridici o con una sorta di affiliazione carismatica. Si andava così delineando un’Europa dello spirito nelle varie regioni della Francia, in Italia, in Spagna, in Germania, in Ungheria.
Il successo di Cluny fu assicurato anzitutto dalla spiritualità elevata che vi si coltivava, ma anche da alcune altre condizioni che ne favorirono lo sviluppo. A differenza di quanto era avvenuto fino ad allora, il monastero di Cluny e le comunità da esso dipendenti furono riconosciuti esenti dalla giurisdizione dei Vescovi locali e sottoposti direttamente a quella del Romano Pontefice. Ciò comportava un legame speciale con la sede di Pietro e, grazie proprio alla protezione e all’incoraggiamento dei Pontefici, gli ideali di purezza e di fedeltà, che la riforma cluniacense intendeva perseguire, poterono diffondersi rapidamente. Inoltre, gli abati venivano eletti senza alcuna ingerenza da parte delle autorità civili, diversamente da quello che avveniva in altri luoghi. Persone veramente degne si succedettero alla guida di Cluny e delle numerose comunità monastiche dipendenti: l’abate Oddone di Cluny, di cui ho parlato in una Catechesi di due mesi fa, e altre grandi personalità, come Emardo, Maiolo, Odilone e soprattutto Ugo il Grande, i quali svolsero il loro servizio per lunghi periodi, assicurando stabilità alla riforma intrapresa e alla sua diffusione. Oltre a Oddone, sono venerati come santi Maiolo, Odilone e Ugo.
La riforma cluniacense ebbe effetti positivi non solo nella purificazione e nel risveglio della vita monastica, bensì anche nella vita della Chiesa universale. Infatti, l’aspirazione alla perfezione evangelica rappresentò uno stimolo a combattere due gravi mali che affliggevano la Chiesa di quel periodo: la simonia, cioè l’acquisizione di cariche pastorali dietro compenso, e l’immoralità del clero secolare. Gli abati di Cluny con la loro autorevolezza spirituale, i monaci cluniacensi che divennero Vescovi, alcuni di loro persino Papi, furono protagonisti di tale imponente azione di rinnovamento spirituale. E i frutti non mancarono: il celibato dei sacerdoti tornò a essere stimato e vissuto, e nell’assunzione degli uffici ecclesiastici vennero introdotte procedure più trasparenti.
Significativi pure i benefici apportati alla società dai monasteri ispirati alla riforma cluniacense. In un’epoca in cui solo le istituzioni ecclesiastiche provvedevano agli indigenti fu praticata con impegno la carità. In tutte le case, l’elemosiniere era tenuto a ospitare i viandanti e i pellegrini bisognosi, i preti e i religiosi in viaggio, e soprattutto i poveri che venivano a chiedere cibo e tetto per qualche giorno. Non meno importanti furono altre due istituzioni, tipiche della civiltà medioevale, promosse da Cluny: le cosiddette “tregue di Dio” e la “pace di Dio”. In un’epoca fortemente segnata dalla violenza e dallo spirito di vendetta, con le “tregue di Dio” venivano assicurati lunghi periodi di non belligeranza, in occasione di determinate feste religiose e di alcuni giorni della settimana. Con “la pace di Dio” si chiedeva, sotto la pena di una censura canonica, di rispettare le persone inermi e i luoghi sacri.
Nella coscienza dei popoli dell’Europa si incrementava così quel processo di lunga gestazione, che avrebbe portato a riconoscere, in modo sempre più chiaro, due elementi fondamentali per la costruzione della società, e cioè il valore della persona umana e il bene primario della pace. Inoltre, come accadeva per le altre fondazioni monastiche, i monasteri cluniacensi disponevano di ampie proprietà che, messe diligentemente a frutto, contribuirono allo sviluppo dell’economia. Accanto al lavoro manuale, non mancarono neppure alcune tipiche attività culturali del monachesimo medioevale come le scuole per i bambini, l’allestimento delle biblioteche, gli scriptoria per la trascrizione dei libri.
In tal modo, mille anni fa, quando era in pieno svolgimento il processo di formazione dell’identità europea, l’esperienza cluniacense, diffusa in vaste regioni del continente europeo, ha apportato il suo contributo importante e prezioso. Ha richiamato il primato dei beni dello spirito; ha tenuto desta la tensione verso le cose di Dio; ha ispirato e favorito iniziative e istituzioni per la promozione dei valori umani; ha educato ad uno spirito di pace. Cari fratelli e sorelle, preghiamo perché tutti coloro che hanno a cuore un autentico umanesimo e il futuro dell’Europa sappiano riscoprire, apprezzare e difendere il ricco patrimonio culturale e religioso di questi secoli.

mercoledì 11 novembre 2009

San Martino

Assunta la carica episcopale, non è nelle nostre capacità illustrare a sufficienza le sue qualità e la grandezza del suo comportamento. Egli, infatti, restò sempre l'uomo che era stato prima: la sua umiltà di cuore rimase inalterata, identica anche la povertà del suo abbigliamento; e così, ripieno di autorità e di grazia, aveva tutta la dignità di un vescovo senza abbandonare il genere di vita e la virtù di un monaco. Per qualche tempo, dimorò in una cella attigua alla chiesa, poi, poiché non poteva sopportare il disagio che gli causavano i visitatori, decise di trasferirsi in un monastero distante circa due miglia dalla città. La località era così appartata e sperduta, che egli non aveva da desiderare la solitudine di un eremo. Infatti, da un lato, era cinto dalle rocce a picco di un'alta montagna, dall'altro lato, la pianura era chiusa da una piccola ansa della Loira. L’unica via d’accesso era costituita da una sola strada, e per giunta molto stretta. Martino occupava una cella fatta di legno come del resto molti dei suoi confratelli: i più avevano scavato la roccia della montagna sovrastante e ne avevano ricavato le loro celle. Circa ottanta erano i discepoli che si uniformavano all'esempio del loro beato maestro. Nessuno possedeva niente in proprio, tutto era messo in comune. A nessuno era lecito acquistare o vendere alcunché, come sono soliti fare certi monaci. Nell’eremo non si esercitava nessuna arte, eccetto quello del copista, ma questo lavoro era riservato ai più giovani, i più anziani invece trascorrevano il loro tempo in preghiera. Raramente uscivano dalla propria cella, eccetto quando si riunivano nel luogo dove avveniva la preghiera in comune. Quando non digiunavano, mangiavano tutti quanti insieme; non si conosceva il vino, salvo quando qualcuno era ammalato. La maggior parte erano vestiti di pelle di cammello; là, era considerato peccato indossare abiti delicati. Questo rigore era tanto più ammirevole per il fatto che molti monaci erano, a quanto si diceva, dei nobili, allevati in maniera assai ben diversa, si erano assoggettati a questa vita fatta di umiltà e di privazioni. Parecchi di essi, in seguito, li abbiamo visti vescovi. Difatti, quale città o quale chiesa non avrebbe desiderato un vescovo proveniente dal monastero di Martino?

[Sulpicio Severo (360 ca.-420 ca.), Vita Martini, cap. X, "Fondazione del monastero di Marmoutier nei pressi di Tours"]

martedì 10 novembre 2009

La dolcezza della vita contemplativa

Catechesi di Benedetto XVI di mercoledì 2 settembre 2009, quando il Papa si è soffermato sulla figura di sant'Oddone, abate di Cluny.

Cari fratelli e sorelle,
(…) vorrei riprendere la presentazione dei grandi Scrittori della Chiesa di Oriente e di Occidente del tempo medioevale, perché, come in uno specchio, nelle loro vite e nei loro scritti vediamo che cosa vuol dire essere cristiani. Oggi vi propongo la figura luminosa di sant’Oddone, abate di Cluny: essa si colloca in quel medioevo monastico che vide il sorprendente diffondersi in Europa della vita e della spiritualità ispirate alla Regola di san Benedetto. Vi fu in quei secoli un prodigioso sorgere e moltiplicarsi di chiostri che, ramificandosi nel continente, vi diffusero largamente lo spirito e la sensibilità cristiana. Sant’Oddone ci riconduce, in particolare, ad un monastero, Cluny, che nel medioevo fu tra i più illustri e celebrati ed ancora oggi rivela attraverso le sue maestose rovine i segni di un passato glorioso per l’intensa dedizione all’ascesi, allo studio e, in special modo, al culto divino, avvolto di decoro e di bellezza.
Di Cluny Oddone fu il secondo abate. Era nato verso l’880, ai confini tra il Maine e la Touraine, in Francia. Dal padre fu consacrato al santo Vescovo Martino di Tours, alla cui ombra benefica e nella cui memoria Oddone passò poi l’intera vita, concludendola alla fine vicino alla sua tomba. La scelta della consacrazione religiosa fu in lui preceduta dall’esperienza di uno speciale momento di grazia, di cui parlò egli stesso ad un altro monaco, Giovanni l’Italiano, che fu poi suo biografo. Oddone era ancora adolescente, sui sedici anni, quando, durante una veglia natalizia, si sentì salire spontaneamente alle labbra questa preghiera alla Vergine: “Mia Signora, Madre di misericordia, che in questa notte hai dato alla luce il Salvatore, prega per me. Il tuo parto glorioso e singolare sia, o Piissima, il mio rifugio” (Vita sancti Odonis, I,9: PL 133,747). L’appellativo “Madre di misericordia”, con cui il giovane Oddone invocò allora la Vergine, sarà quello col quale egli amerà poi sempre rivolgersi a Maria, chiamandola anche “unica speranza del mondo, … grazie alla quale ci sono state aperte le porte del paradiso” (In veneratione S. Mariae Magdalenae: PL 133,721). Gli avvenne in quel tempo di imbattersi nella Regola di san Benedetto e di iniziarne alcune osservanze, “portando, non ancora monaco, il giogo leggero dei monaci” (ibid., I,14: PL 133,50). In un suo sermone Oddone celebrerà Benedetto come “lucerna che brilla nel tenebroso stadio di questa vita” (De sancto Benedicto abbate: PL 133,725), e lo qualificherà “maestro di disciplina spirituale” (ibid.: PL 133,727). Con affetto rileverà che la pietà cristiana “con più viva dolcezza fa memoria” di lui, nella consapevolezza che Dio lo ha innalzato “tra i sommi ed eletti Padri della santa Chiesa” (ibid.: PL 133,722).
Affascinato dall’ideale benedettino, Oddone lasciò Tours ed entrò come monaco nell’abbazia benedettina di Baume, per poi passare in quella di Cluny, di cui nel 927 divenne abate. Da quel centro di vita spirituale poté esercitare un vasto influsso sui monasteri del continente. Della sua guida e della sua riforma si giovarono anche in Italia diversi cenobi, tra i quali quello di San Paolo fuori le Mura. Oddone visitò più d’una volta Roma, raggiungendo anche Subiaco, Montecassino e Salerno. Fu proprio a Roma che, nell’estate del 942, cadde malato. Sentendosi prossimo alla fine, con ogni sforzo volle tornare presso il suo san Martino a Tours, ove morì nell’ottavario del Santo, il 18 novembre 942. Il biografo, nel sottolineare in Oddone la “virtù della pazienza”, offre un lungo elenco di altre sue virtù, quali il disprezzo del mondo, lo zelo per le anime, l’impegno per la pace delle Chiese. Grandi aspirazioni dell’abate Oddone erano la concordia tra i re e i principi, l’osservanza dei comandamenti, l’attenzione ai poveri, l’emendamento dei giovani, il rispetto per i vecchi (cfr. Vita sancti Odonis, I,17: PL 133,49). Amava la celletta dove risiedeva, “sottratto agli occhi di tutti, sollecito di piacere solo a Dio” (ibid., I,14: PL 133,49). Non mancava, però, di esercitare pure, come “fonte sovrabbondante”, il ministero della parola e dell’esempio, “piangendo come immensamente misero questo mondo” (ibid., I,17: PL 133,51). In un solo monaco, commenta il suo biografo, si trovavano raccolte le diverse virtù esistenti in stato sparso negli altri monasteri: “Gesù nella sua bontà, attingendo ai vari giardini dei monaci, formava in un piccolo luogo un paradiso, per irrigare dalla sua fonte i cuori dei fedeli” (ibid., I,14: PL 133,49).
In un passo di un sermone in onore di Maria di Magdala l’abate di Cluny ci rivela come egli concepiva la vita monastica: “Maria che, seduta ai piedi del Signore, con spirito attento ascoltava la sua parola, è il simbolo della dolcezza della vita contemplativa, il cui sapore, quanto più è gustato, tanto maggiormente induce l’animo a distaccarsi dalle cose visibili e dai tumulti delle preoccupazioni del mondo” (In ven. S. Mariae Magd., PL 133,717). È una concezione che Oddone conferma e sviluppa negli altri suoi scritti, dai quali traspaiono l’amore all’interiorità, una visione del mondo come di realtà fragile e precaria da cui sradicarsi, una costante inclinazione al distacco dalle cose avvertite come fonti di inquietudine, un’acuta sensibilità per la presenza del male nelle varie categorie di uomini, un’intima aspirazione escatologica. Questa visione del mondo può apparire abbastanza lontana dalla nostra, tuttavia quella di Oddone è una concezione che, vedendo la fragilità del mondo, valorizza la vita interiore aperta all’altro, all’amore del prossimo, e proprio così trasforma l’esistenza e apre il mondo alla luce di Dio.
Merita particolare menzione la “devozione” al Corpo e al Sangue di Cristo che Oddone, di fronte a una estesa trascuratezza da lui vivacemente deplorata, coltivò sempre con convinzione. Era infatti fermamente convinto della presenza reale, sotto le specie eucaristiche, del Corpo e del Sangue del Signore, in virtù della conversione “sostanziale” del pane e del vino. Scriveva: “Dio, il Creatore di tutto, ha preso il pane, dicendo che era il suo Corpo e che lo avrebbe offerto per il mondo e ha distribuito il vino, chiamandolo suo Sangue”; ora, “è legge di natura che avvenga il mutamento secondo il comando del Creatore”, ed ecco, pertanto, che “subito la natura muta la sua condizione solita: senza indugio il pane diventa carne, e il vino diventa sangue”; all’ordine del Signore “la sostanza si muta” (Odonis Abb. Cluniac. occupatio, ed. A. Swoboda, Lipsia 1900, p. 121). Purtroppo, annota il nostro abate, questo “sacrosanto mistero del Corpo del Signore, nel quale consiste tutta la salvezza del mondo” (Collationes, XXVIII: PL 133,572), è negligentemente celebrato. “I sacerdoti, egli avverte, che accedono all’altare indegnamente, macchiano il pane, cioè il Corpo di Cristo” (ibid., PL 133,572-573). Solo chi è unito spiritualmente a Cristo può partecipare degnamente al suo Corpo eucaristico: in caso contrario, mangiare la sua carne e bere il suo sangue non sarebbe di giovamento, ma di condanna (cfr. ibid., XXX, PL 133,575). Tutto questo ci invita a credere con nuova forza e profondità la verità della presenza del Signore. La presenza del Creatore tra noi, che si consegna nelle nostre mani e ci trasforma come trasforma il pane e il vino, trasforma così il mondo.
Sant’Oddone è stato una vera guida spirituale sia per i monaci che per i fedeli del suo tempo. Di fronte alla “vastità dei vizi” diffusi nella società, il rimedio che egli proponeva con decisione era quello di un radicale cambiamento di vita, fondato sull’umiltà, l’austerità, il distacco dalle cose effimere e l’adesione a quelle eterne (cfr. Collationes, XXX, PL 133, 613). Nonostante il realismo della sua diagnosi circa la situazione del suo tempo, Oddone non indulge al pessimismo: “Non diciamo questo – egli precisa – per precipitare nella disperazione quelli che vorranno convertirsi. La misericordia divina è sempre disponibile; essa aspetta l’ora della nostra conversione” (ibid.: PL 133, 563). Ed esclama: “O ineffabili viscere della pietà divina! Dio persegue le colpe e tuttavia protegge i peccatori” (ibid.: PL 133,592). Sostenuto da questa convinzione, l’abate di Cluny amava sostare nella contemplazione della misericordia di Cristo, il Salvatore che egli qualificava suggestivamente come “amante degli uomini”: “amator hominum Christus” (ibid., LIII: PL 133,637). Gesù ha preso su di sé i flagelli che sarebbero spettati a noi – osserva – per salvare così la creatura che è opera sua e che ama (cfr. ibid.: PL 133, 638).
Appare qui un tratto del santo abate a prima vista quasi nascosto sotto il rigore della sua austerità di riformatore: la profonda bontà del suo animo. Era austero, ma soprattutto era buono, un uomo di una grande bontà, una bontà che proviene dal contatto con la bontà divina. Oddone, così ci dicono i suoi coetanei, effondeva intorno a sé la gioia di cui era ricolmo. Il suo biografo attesta di non aver sentito mai uscire da bocca d’uomo “tanta dolcezza di parola” (ibid., I,17: PL 133,31). Era solito, ricorda il biografo, invitare al canto i fanciulli che incontrava lungo la strada per poi far loro qualche piccolo dono, e aggiunge: “Le sue parole erano ricolme di esultanza…, la sua ilarità infondeva nel nostro cuore un’intima gioia” (ibid., II, 5: PL 133,63). In questo modo il vigoroso ed insieme amabile abate medioevale, appassionato di riforma, con azione incisiva alimentava nei monaci, come anche nei fedeli laici del suo tempo, il proposito di progredire con passo solerte sulla via della perfezione cristiana.
Vogliamo sperare che la sua bontà, la gioia che proviene dalla fede, unite all’austerità e all’opposizione ai vizi del mondo, tocchino anche il nostro cuore, affinché anche noi possiamo trovare la fonte della gioia che scaturisce dalla bontà di Dio.

venerdì 6 novembre 2009

Non finis quaerendi

Interrogati noi stessi, ci siamo detti che nulla ha perso in attualità e importanza l’affermazione del celebre abate benedettino di Solesmes, dom Prosper Guéranger (1805-1875), secondo il quale: “Nella liturgia lo Spirito che ispirò le Scritture parla ancora; la liturgia è la Tradizione stessa nel suo più alto grado di potenza e di solennità”.
Il riferimento a dom Guéranger non è del tutto casuale. D’altro canto, e ripetutamente, la Chiesa ha puntualmente ricordato il ruolo di primo piano “dei monaci e delle monache” (Benedetto XVI, motu proprio Summorum pontificum) nella cura dell’offerta alla Divina Maestà di un culto degno, “a lode e gloria del Suo nome” e “ad utilità di tutta la sua Santa Chiesa”. Operando “sotto la Regola di san Benedetto, dovunque unitamente all’annuncio del Vangelo [costoro] illustrarono con la loro vita la salutare massima della Regola: ‘Nulla venga preposto all’opera di Dio’ (cap. 43)” (ibid.).
Questi pensieri ci accompagnano mentre, ancora una volta, riflettiamo sulle possibilità di un “nuovo movimento liturgico”. Esso prenderà vita, o l’ha già presa? E rientra nei suoi compiti la considerazione di una “riforma della riforma”? Allo stato attuale, pare che esso si collochi più nei cuori che s’interrogano sul ruolo della liturgia nella vita dei cristiani e della Chiesa, che in istanze a ciò preposte. Forse è un bene che sia così, posto il luogo che la liturgia occupa e deve occupare: il cuore, appunto.
In quest’ottica, un orizzonte spirituale ci è offerto dalla ruminazione di un’anima consacrata che lo Spirito ha chiamato a essere lievito della “riforma della riforma”, qualsiasi cosa Dio vorrà che tale “riforma” debba essere. La traccia è in uno scritto profetico dell’Antico Testamento – verrebbe da dire, Ecriture d’abord! –, che riportiamo: “Così dice il Signore: ‘Fermatevi nelle strade e guardate, informatevi dei sentieri del passato, dove sta la strada buona percorretela, così troverete pace per la vostra vita’” (Ger 6,16).
Eccoci, come sempre e come ciascuno, per via nella strada, alla ricerca di pace per la nostra vita, quindi alla ricerca dell’unica Pace, che è Dio ed è in Dio. Guardiamo, c’informiamo, onde percorrere la buona strada. Non vogliamo assolutizzare nulla; non abbiamo bisogno di idoli.
Viandanti e rustici peccatori, ci accompagna nell’escursione il Vicario di Cristo. Che in altra veste – non ancora cioè preposto a pascere il gregge affidatogli dal Signore, ma pur sempre nella veste di colui che sarà chiamato a pascerlo, e anch’egli facente parte della compagnia itinerante – sembra non avere mai smesso di riflettere sulla liturgia. Così si esprimeva, privatamente ma chiaramente: “Adesso occorre avanzare passo dopo passo, giacché ogni nuova precipitazione non produrrà buoni risultati. Credo tuttavia, che in avvenire la Chiesa romana dovrà avere nuovamente un solo rito, essendo difficilmente ‘gestibile’ nella pratica, per i vescovi e i sacerdoti, l’esistenza di due riti ufficiali. Il rito romano del futuro dovrebbe essere uno solo, celebrato in latino o in vernacolo, ma interamente fondato nella tradizione del rito antico. Esso potrebbe integrare qualche elemento nuovo che si è sperimentato valido, come le nuove Feste, alcuni nuovi Prefazi della Messa, un Lezionario esteso – una maggiore scelta di prima, ma non troppa –, una Oratio fidelium, cioè una litania di preghiere d’intercessione dopo l’Oremus dell’Offertorio, dove in precedenza aveva la sua collocazione” (card. Joseph Ratzinger, lettera del 23 giugno 2003 al prof. Heinz-Lothar Barth).
Recependo espressamente la riflessione dell’allora card. Ratzinger, in un intervento del 18 agosto 2007 comparso sul quotidiano francese Présent, dom Louis-Marie Geyer d’Orth – abate del monastero di Le Barroux – constatava: “Quando si guarda alla storia della Chiesa, si constatano due tendenze. La prima è quella dell’unità del rito. (…) Per fare questo, servirà tempo e lavoro negli spiriti e nei testi. Un primo cantiere sarebbe quello di ridurre gli abusi da una parte e dall’altra, come si può riassumere con le parole del filosofo Gustave Thibon: ‘Non assolutizzare ciò che è relativo e non relativizzare ciò che è assoluto’; un secondo cantiere sarebbero taluni ritocchi nella ‘forma straordinaria’ come, per esempio, l’adozione di nuovi Prefazi e di nuovi santi, la possibilità delle letture in vernacolare e l’applicazione di alcune modifiche del 1964 e 1965, come dom Gérard ha fatto nel nostro monastero (…). D’altra parte, dev’essere promossa una riforma della riforma nella forma ordinaria del rito, comprensiva di un più ampio uso del latino, una più grande sacralità nei gesti, una ben maggiore precisione, un più ampio rispetto delle regole e soprattutto una manifestazione più netta della fede nella presenza reale. Rimane tuttavia uno spazio fra le due forme che mi sembra difficile ridurre totalmente. Riassumendo, riprendo l’espressione di dom François Cassingena-Trévedy, il quale presenta il messale del 1962 come quello del Cielo sulla terra (…) e quello del 1969 come del Cielo per la terra (…). Se si vuole ritrovare un’unità, occorrerà rimaneggiare tutto, ma progressivamente, onde non ricominciare una rivoluzione cerebrale e legalista. Ciò che mi appare tuttavia difficile. Comunque, io non ritengo che l’unità del rito sia un’esigenza per la Chiesa. La seconda tendenza che si constata nella storia è quella della pluralità dei riti. Basti pensare alla ventina di riti orientali e ai diversi riti latini (…). La forma straordinaria del rito romano può coesistere pienamente con la forma ordinaria, con la missione propria e indispensabile d’esprimere che, con la forma ordinaria, non si vuole rinnegare né il passato né il sacro. Il motu proprio Summorum pontificum, in qualche misura, vieta di celebrare il nuovo rito con uno spirito di rottura verso quello antico”.
La liturgia è azione di Cristo e della Chiesa; un dramma nel quale ci si cala e al quale si conforma il proprio modo di pensare, che scolpisce la nostra vita interiore, per mezzo di verità che i testi e i gesti veicolano – spesso in maniera simbolica o poetica – affinché eleviamo il nostro spirito a Dio e ci disponiamo a ricevere il suo amore nei suoi sacramenti. La Regola di san Benedetto c’intima non a caso in tal senso: “partecipiamo alla salmodia in modo tale che l’intima disposizione dell’animo si armonizzi con la nostra voce” (RB XIX,7).

giovedì 5 novembre 2009

L’equilibrio in altitudine. Meditazioni sulla Regola / ultima parte

Senza dubbio vi sono degli elementi caduci nella Regola. Talune cortecce cadono, la linfa rimane…
Il giovane citato in precedenza si è mostrato scioccato dalle prescrizioni riguardanti le punizioni corporali. Ho concesso che non siamo più nel secolo VI e che immagino a fatica l’uso delle discipline in un monastero contemporaneo.
Ma si può parlare senza arrossire — o senza ridere — di un autentico addolcimento dei costumi? La nostra epoca — quella dei figli viziati, dell’assistenza generalizzata, della «comprensione» ammorbidita della giustizia penale, ecc. — non è anche quella degli aborti in serie, dei genocidi di massa, dei campi di concentramento e di morte, del terrorismo politico, della tortura scientifica? Che peso hanno le povere vergini di san Benedetto comparate a un tale diluvio di orrori? Un po’ di pudore non guasterebbe. La peggior forma d’ipocrisia è usare la trave nel nostro occhio come una lente d’ingrandimento per esagerare le dimensioni delle pagliuzze che offuscavano lo sguardo dei nostri antenati. Riflesso infantile d’autodifesa e d’autogiustificazione tramite il quale il nostro tempo si dà una buona coscienza conciliando, al prezzo di una menzogna, la propria fede nel progresso e la propria regressione verso la barbarie…
L’equilibrio in altitudine. Più il fine dell’ascesa è elevato, più va prestata attenzione alle leggi della pesantezza. Il pericolo di caduta è diversamente grave per l’alpinista e per il camminatore di pianura.
Le minuzie della Regola assicurano questo equilibrio, senza il quale ci si espone al rischio di cadere ai primi gradini, o a non salire che in sogno. Un tempo ho detto che solo l’infinito ci dà la chiave della misura. Si può girare la proposizione e affermare che la misura ci dà la chiave dell’infinito. La regola emana dal confluire di queste due evidenze: essa ci vaccina contro la tentazione della dismisura, quel falso infinito odiato dei Greci che Maurras qualificava come osceno, e che tradisce sia la terra sia il cielo.
Il termine del viaggio è in cielo; la rotta è sulla terra e l’uomo vi sale con tutto il suo peso. La Regola traccia e consolida la via stretta che conduce alla Patria senza frontiere. Essa non sopprime la pesantezza: ne previene gli effetti negativi legandola all’attrazione dell’imponderabile divino.
È per questo capolavoro di armonia fra le leggi della natura e il mistero della grazia che san Benedetto rimane, al di là e all’interno di tutti i secoli, una delle guide supreme dell’umanità in cammino verso la salvezza.
Nel quinto centenario della sua nascita e in un mondo già raggiunto e minacciato nel suo insieme da una nuova barbarie più impietosa di quella dell’Alto Medioevo, l’immagine tutelare del Patriarca e del suo gregge emerge come la visione dell’Arca sulle acque del diluvio. Mi tornano alla mente i versi che gli dedicava all’inizio del secolo XX il poeta Le Cardonnel:

Tu regardes les flots échappés de ton urne
Aux horizons lointains de l’esapce et du temps
Miséricordieux, sévère et taciturne.

Orizzonti dove lo spazio confina con l’infinito e il tempo con l’eternità.

[Gustave Thibon (1903-2001), L'équilibre dans l'altitude. Méditations sur la Règle, in Itinéraires, n. 246, settembre-ottobre 1980, pp. 71-77 (qui pp. 76-77), trad. it di fr. Romualdo Obl.S.B. - 6 / fine]

Benedictus - Scritti spirituali

Com’è noto ai fedeli legati alla forma straordinaria del Rito romano, da molti l’anni l’abbazia benedettina Sainte-Madeleine di Le Barroux, in Provenza, costituisce un centro spirituale particolarmente significativo per lo sforzo di fedeltà alla Regola di san Benedetto e l’irradiamento della liturgia gregoriana, così perpetuando la grande tradizione del monachesimo occidentale in pieno secolo XXI. Le Éditions Sainte-Madeleine hanno pubblicato il primo volume degli scritti spirituali di dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), fondatore e primo abate del monastero: Benedictus. Ecrits Spirituels. Tome I (244 pagine, euro 20). Dom Gérard amava profondamente la Santa Liturgia, amava “scrutarla”, “soppesarla”, per estrarne tutta l’insondabile ricchezza e quindi condividerla. In questo libro sono riuniti gli scritti spirituali di dom Gérard comparsi nel periodico Itinéraires. Il volume è acquistabile online, nella sezione “boutique en ligne”, tramite il sito Internet dell’abbazia.

martedì 3 novembre 2009

Del vero amore verso Dio

Perché quest'amore sia sodo deve portarvi efficacemente ad adempiere la volontà di Dio in tutte le cose con inviolabile fedeltà; a schivare qualunque peccato per leggiero vi sembri; a fare tutte le vostre operazioni per Dio, riferendole alla di lui gloria; a profittare di tutte le occasioni di servirlo, e a fare tutto quello, che conoscete dover essergli più grato, sebbene per altro a ciò non siate tenute; a staccare il vostro cuore da tutte le creature per attaccarvi unicamente a Dio; ad occuparvi sempre in lui, ponendo tutte le vostre delizie in trattenervi con esso; a tollerare per amore di lui tutto quello, che vi avviene di noioso, e a fargliene un sacrificio; a stare ferme e costanti nella pratica della virtù, malgrado tutte le difficoltà, tutte le tentazioni del Demonio, tutte le lusinghe delle creature; a odiarvi, sprezzarvi e perseguitarvi sempre per far morire in voi l'uomo antico, distruggere l'amor proprio e sacrificarvi come Ostia vivente alla gloria del Signore. Ogni amore, che non ha queste qualità, o che non si affatica per acquistarle non è il vero amore.

[Manoscritto non datato, ca. XVIII-XIX secolo, conservato nel retro di copertina del Memoriale di alcune cose notabili del monastero di San Benedetto: memorie pure delle capitoli che si fanno in detto monastero, Archivio del monastero di S. Benedetto in Bergamo]

domenica 1 novembre 2009

L’equilibrio in altitudine. Meditazioni sulla Regola / quinta parte

La Regola, a immagine della vita, è ferma nel suo principio e docile nelle sue applicazioni. Sono meravigliato, rileggendola, dallo spirito di moderazione che tempera e — se posso così dire — lubrifica i precetti più severi. La migliore bilancia è quella più sensibile alle differenze dei pesi. San Benedetto non perde mai di vista la diversità degli esseri e delle circostanze: ogni pagina della Regola testimonia di quest’attenzione vigilante al concreto e al dettaglio: si rileggano, per esempio, le righe dedicate alla misura del cibo e delle bevande, alla cura dei malati, ai lavori manuali, ecc. E se la bilancia — la cui giustezza è il simbolo della giustizia — deve pendere un poco, è nel senso dell’indulgenza e della misericordia: «semper superexaltet misericordiam judicio», è prescritto agli abati.

Regola di vita e regola viva. Il nostro tempo ripudia volentieri le discipline morali e spirituali come contrarie alla libertà e alla «fioritura» dell’uomo. In realtà, non abbiamo più autentica libertà perché non abbiamo più vere regole. E quanto alla fioritura permanente, non esiste che per i fiori artificiali, che non alimentano alcuna linfa e che non danno né frutto né seme. Non si sfugge alla regola: non si ha scelta che fra la regola viva e vivificante e la regola morta e mortificata. Il Giano contemporaneo ci offre due volti ugualmente distorti: da un lato la smorfia mobile della licenza e del caos; dall’altro la smorfia congelata dell’ordine burocratico che sostituisce le regole con i regolamenti e le forme — nell’accezione aristotelica del termine — con le formalità, scheletro prefabbricato per gl’invertebrati della libertà. Un solo esempio per illustrare tale contrasto: la pornografia e l’aborto sono permessi, quando non incoraggiati, ma non si ha il diritto di rifiutare le vaccinazioni o di circolare in auto senza cintura; si può corrompere e uccidere, ma non disporre del proprio corpo…

[Gustave Thibon (1903-2001), L'équilibre dans l'altitude. Méditations sur la Règle, in Itinéraires, n. 246, settembre-ottobre 1980, pp. 71-77 (qui pp. 75-76), trad. it di fr. Romualdo Obl.S.B. - 5 / segue]