giovedì 29 ottobre 2009

Assuefatto a sopportare e a perdonare

Catechesi di Benedetto XVI di mercoledì 14 ottobre 2009, quando il Papa si è soffermato sulla figura di Pietro il Venerabile.

Cari fratelli e sorelle,
la figura di Pietro il Venerabile, che vorrei presentare nell’odierna catechesi, ci riconduce alla celebre abbazia di Cluny, al suo «decoro» (decor) e al suo «nitore» (nitor) – per usare termini ricorrenti nei testi cluniacensi – decoro e splendore, che si ammirano soprattutto nella bellezza della liturgia, via privilegiata per giungere a Dio. Più ancora che questi aspetti, però, la personalità di Pietro richiama la santità dei grandi abati cluniacensi: a Cluny “non ci fu un solo abate che non sia stato un santo”, affermava nel 1080 il Papa Gregorio VII. Tra questi si colloca Pietro il Venerabile, il quale raccoglie in sé un po’ tutte le virtù dei suoi predecessori, sebbene già con lui Cluny, di fronte agli Ordini nuovi come quello di Cîteaux, inizi a risentire qualche sintomo di crisi. Pietro è un esempio mirabile di asceta rigoroso con se stesso e comprensivo con gli altri. Nato attorno al 1094 nella regione francese dell’Alvernia, entrò bambino nel monastero di Sauxillanges, ove divenne monaco professo e poi priore. Nel 1122 fu eletto Abate di Cluny, e in tale carica rimase fino alla morte, avvenuta nel giorno di Natale del 1156, come egli aveva desiderato. “Amante della pace – scrive il suo biografo Rodolfo – ottenne la pace nella gloria di Dio il giorno della pace” (Vita, I,17: PL 189,28).
Quanti lo conobbero ne esaltarono la signorile mitezza, il sereno equilibrio, il dominio di sé, la rettitudine, la lealtà, la lucidità e la speciale attitudine a mediare. “È nella mia stessa natura – scriveva - di essere alquanto portato all’indulgenza; a ciò mi incita la mia abitudine a perdonare. Sono assuefatto a sopportare e a perdonare” (Ep. 192, in: The Letters of Peter the Venerable, Harvard University Press, 1967, p. 446). Diceva ancora: “Con quelli che odiano la pace vorremmo, possibilmente, sempre essere pacifici” (Ep. 100, l.c., p. 261). E scriveva di sé: “Non sono di quelli che non sono contenti della loro sorte, … il cui spirito è sempre nell’ansia o nel dubbio, e che si lamentano perché tutti gli altri si riposano e loro sono i soli a lavorare” (Ep. 182, p. 425). Di indole sensibile e affettuosa, sapeva congiungere l’amore per il Signore con la tenerezza verso i familiari, particolarmente verso la madre, e verso gli amici. Fu un cultore dell’amicizia, in modo speciale nei confronti dei suoi monaci, che abitualmente si confidavano con lui, sicuri di essere accolti e compresi. Secondo la testimonianza del biografo, “non disprezzava e non respingeva nessuno” (Vita, I,3: PL 189,19); “appariva a tutti amabile; nella sua bontà innata era aperto a tutti” (ibid., I,1: PL 189,17).
Potremmo dire che questo santo Abate costituisce un esempio anche per i monaci e i cristiani di questo nostro tempo, segnato da un ritmo di vita frenetico, dove non rari sono gli episodi di intolleranza e di incomunicabilità, le divisioni e i conflitti. La sua testimonianza ci invita a saper unire l’amore a Dio con l’amore al prossimo, e a non stancarci nel riannodare rapporti di fraternità e di riconciliazione. Così in effetti agiva Pietro il Venerabile, che si trovò a guidare il monastero di Cluny in anni non molto tranquilli per varie ragioni esterne e interne all’Abbazia, riuscendo ad essere al tempo stesso severo e dotato di profonda umanità. Soleva dire: “Da un uomo si potrà ottenere di più tollerandolo, che non irritandolo con le lamentele” (Ep. 172, l.c., p. 409). In ragione del suo ufficio dovette affrontare frequenti viaggi in Italia, in Inghilterra, in Germania, in Spagna. L’abbandono forzato della quiete contemplativa gli pesava. Confessava: “Vado da un luogo all’altro, mi affanno, mi inquieto, mi tormento, trascinato qua e là; ho la mente rivolta ora agli affari miei ora a quelli degli altri, non senza grande agitazione del mio animo” (Ep. 91, l.c., p. 233). Pur dovendosi destreggiare tra poteri e signorie che circondavano Cluny, riuscì comunque, grazie al suo senso della misura, alla sua magnanimità e al suo realismo, a conservare un’abituale tranquillità. Tra le personalità con cui entrò in relazione ci fu Bernardo di Clairvaux con il quale intrattenne un rapporto di crescente amicizia, pur nella diversità del temperamento e delle prospettive. Bernardo lo definiva: “uomo importante, occupato in faccende importanti” e aveva grande stima di lui (Ep. 147, ed. Scriptorium Claravallense, Milano 1986, VI/1, pp. 658-660), mentre Pietro il Venerabile definiva Bernardo “lucerna della Chiesa” (Ep. 164, p. 396), “forte e splendida colonna dell’ordine monastico e di tutta la Chiesa” (Ep. 175, p. 418).
Con vivo senso ecclesiale, Pietro il Venerabile affermava che le vicende del popolo cristiano devono essere sentite nell’“intimo del cuore” da quanti si annoverano “tra i membri del corpo di Cristo” (Ep. 164, l.c., p. 397). E aggiungeva: “Non è alimentato dallo spirito di Cristo chi non sente le ferite del corpo di Cristo”, ovunque esse si producano (ibid.). Mostrava inoltre cura e sollecitudine anche per chi era al di fuori della Chiesa, in particolare per gli ebrei e i musulmani: per favorire la conoscenza di questi ultimi provvide a far tradurre il Corano. Osserva al riguardo uno storico recente: “In mezzo all’intransigenza degli uomini del Medioevo – anche dei più grandi tra essi –, noi ammiriamo qui un esempio sublime della delicatezza a cui conduce la carità cristiana” (J. Leclercq, Pietro il Venerabile, Jaca Book, 1991, p. 189). Altri aspetti della vita cristiana a lui cari erano l’amore per l’Eucaristia e la devozione verso la Vergine Maria. Sul Santissimo Sacramento ci ha lasciato pagine che costituiscono “uno dei capolavori della letteratura eucaristica di tutti i tempi” (ibid., p. 267), e sulla Madre di Dio ha scritto riflessioni illuminanti, contemplandola sempre in stretta relazione con Gesù Redentore e con la sua opera di salvezza. Basti riportare questa sua ispirata elevazione: “Salve, Vergine benedetta, che hai messo in fuga la maledizione. Salve, madre dell’Altissimo, sposa dell’Agnello mitissimo. Tu hai vinto il serpente, gli hai schiacciato il capo, quando il Dio da te generato lo ha annientato… Stella fulgente dell’oriente, che metti in fuga le ombre dell’occidente. Aurora che precede il sole, giorno che ignora la notte… Prega il Dio che da te è nato, perché sciolga il nostro peccato e, dopo il perdono, ci conceda la grazia e la gloria” (Carmina, PL 189, 1018-1019).
Pietro il Venerabile nutriva anche una predilezione per l’attività letteraria e ne possedeva il talento. Annotava le sue riflessioni, persuaso dell’importanza di usare la penna quasi come un aratro per “spargere nella carta il seme del Verbo” (Ep. 20, p. 38). Anche se non fu un teologo sistematico, fu un grande indagatore del mistero di Dio. La sua teologia affonda le radici nella preghiera, specie in quella liturgica e tra i misteri di Cristo, egli prediligeva quello della Trasfigurazione, nel quale già si prefigura la Risurrezione. Fu proprio lui ad introdurre a Cluny tale festa, componendone uno speciale ufficio, in cui si riflette la caratteristica pietà teologica di Pietro e dell’Ordine cluniacense, tesa tutta alla contemplazione del volto glorioso (gloriosa facies) di Cristo, trovandovi le ragioni di quell’ardente gioia che contrassegnava il suo spirito e si irradiava nella liturgia del monastero.
Cari fratelli e sorelle, questo santo monaco è certamente un grande esempio di santità monastica, alimentata alle sorgenti della tradizione benedettina. Per lui l’ideale del monaco consiste nell’“aderire tenacemente a Cristo” (Ep. 53, l.c., p. 161), in una vita claustrale contraddistinta dalla “umiltà monastica” (ibid.) e dalla laboriosità (Ep. 77, l.c., p. 211), come pure da un clima di silenziosa contemplazione e di costante lode a Dio. La prima e più importante occupazione del monaco, secondo Pietro di Cluny, è la celebrazione solenne dell’ufficio divino – “opera celeste e di tutte la più utile” (Statuta, PL 189, I, 1026) – da accompagnare con la lettura, la meditazione, l’orazione personale e la penitenza osservata con discrezione (cfr Ep. 20, l.c., p. 40). In questo modo tutta la vita risulta pervasa di amore profondo per Dio e di amore per gli altri, un amore che si esprime nella sincera apertura al prossimo, nel perdono e nella ricerca della pace. Potremmo dire, concludendo, che se questo stile di vita unito al lavoro quotidiano, costituisce, per san Benedetto, l’ideale del monaco, esso concerne anche tutti noi, può essere, in grande misura, lo stile di vita del cristiano che vuole diventare autentico discepolo di Cristo, caratterizzato proprio dall’adesione tenace a Lui, dall’umiltà, dalla laboriosità e dalla capacità di perdono e di pace.

martedì 27 ottobre 2009

La stabilità benedettina

Non fu san Benedetto a inventare il cenobitismo. Ben prima di lui, al tempo di sant’Antonio, esisteva il costume di riunirsi fra discepoli attorno a un maestro al fine di cercare il cammino della perfezione nella vita comune. E negli Atti degli Apostoli percepiamo un affresco di tale cenobitismo primitivo: «Tutti i credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune; vendevano le loro proprietà e sostanze e le dividevano con tutti, secondo il bisogno di ciascuno. Ogni giorno erano perseveranti insieme nel tempio e, spezzando il pane nelle case, prendevano cibo con letizia e semplicità di cuore, lodando Dio e godendo il favore di tutto il popolo. Intanto il Signore ogni giorno aggiungeva alla comunità quelli che erano salvati» (At 2,44-47).
Non fu san Benedetto il primo a scrivere una regola per i monaci; prima di lui san Pacomio e san Basilio avevano già legiferato per alcune comunità religiose. Ma fu certamente san Benedetto a confermare il cenobitismo nei suoi fondamenti, così come esso si mantiene ancora al giorno d’oggi. Il commento alla Regola di san Benedetto mostra le tre caratteristiche di questa riforma.
Essa è anzitutto un’opera di precisione, perché la Regola è chiara e netta. Il postulante, sin dai primi giorni, apprende la legge sotto la quale va a militare: «Ecce lex sub qua militare vis» (RB LVIII,9). E così conosce le esigenze alle quali va a fare professione.
Il secondo elemento è la discrezione. San Benedetto non esige alcuna austerità straordinaria. Prevede gli alimenti, il sonno, e divide egli stesso l’orario della preghiera, del lavoro, della lettura. La Santa Regola non è concepita per degli eroi o campioni dell’austerità e della penitenza come accade in san Colombano, né per un’élite intellettuale come accade in Cassiodoro. Insomma, questa Regola non vuole prescrivere nulla di duro o penoso; l’abate deve avere coscienza della fragilità terrestre, disponendo le cose con moderazione e discernimento, in maniera tale che le anime si salvino, che i forti desiderino fare di più, e che i deboli non si scoraggino.
Ma ecco il terzo elemento segnalato nella Regola: la stabilità. Essa contraddistingue in maniera decisiva l’opera propria di san Benedetto. Sin dal primo capitolo della Regola, egli analizza le quattro categorie di monaci e fa l’elogio di quella fortissima e valorosa dei cenobiti, «che vivono in un monastero, militando sotto una regola e un abate» (RB I,2). In questa definizione sono già insiti gli elementi che costituiscono l’oggetto dei tre voti: la stabilità nel monastero, la conversione dei costumi, l’obbedienza. Si può tuttavia ritenere che il voto di stabilità sia la chiave del monachesimo occidentale.

[Gustave Corção (1896-1978), La stabilité bénédictine, in Itinéraires, n. 246, settembre-ottobre 1980, pp. 39-50 (qui pp. 44-45), trad. it di fr. Romualdo Obl.S.B.]

domenica 25 ottobre 2009

La regalità di Gesù Cristo

(...) Parimenti si dica della regalità di Cristo. Non si tratta di un concetto umano destinato all'abbellimento del culto dovuto al messia. Si tratta si una realtà che s'identifica con il mistero dell'Uomo-Dio. Non si parla della regalità del Signore Gesù Cristo che per sottolineare il carattere divino e trascendente collegato alla sua persona e al mistero del suo governo, del quale nessuna signoria terrestre ci darà mai l'idea. Non si dovrebbe pronunciare il nome della regalità che con tremore. Un tremore d'amore, perché questa regalità non ha altro significato che di estendere sino a noi gli effetti di una carità infinita; un tremore di timore reverenziale, perché tutte le cose sono sospese al suo volere.

Bisogna anzitutto ammettere che la regalità dell'Uomo-Dio si estende sull'opera immensa dell'universo cosmico. Il mondo non è stato fatto che per parlarci di Lui. Egli è il Verbo che ha organizzato il caos primordiale, il Redentore che restaura tutte le cose nel mistero di una più elevata armonia. Che il Cristo, re universale, sia un re vittorioso - Rex triumphator -, giudice dei vivi e dei morti, unico capace di sciogliere i sigilli del libro impenetrabile dal quale, alla fine dei tempi, l'umanità riunita in un universo trasfigurato ascolterà con stupore la lettura della propria storia, dovrebbe trasportarci con allegria. Vi è in ciò una verità evidente, una verità rivelata dalla Sacra Scrittura, una verità innalzata davanti agli occhi dei martiri della Chiesa primitiva come un'icona annunciatrice della gloria, e celebrata per la nostra consolazione nel corso dell'anno liturgico.

Ciò nonostante Gesù cerca in primo luogo di regnare nel segreto dell'anima. Il Kyrios pantocrator, miracolo incomprensibile, Lui la cui mano sostiene l'universo, si avvicina alla sua creatura e gli sussurra: "Figlio mio, dammi il tuo cuore".

[Dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), Demain la Chrétienté, 2a ed., Dismas, Dion-Valmont 1988, pp. 94-95, trad. it di fr. Romualdo Obl.S.B.]

giovedì 22 ottobre 2009

Il segreto dei monaci

Il segreto dei monaci? Nessuno, capitelo bene, da venti secoli nessuno ha svelato il segreto dei monaci. La loro gioia e il loro tormento, la loro angoscia, la loro inquietudine bruciante e il lento possesso di una pace conquistata; tutto questo, mescolato finalmente alla loro azione di grazie, essi portano con sé sorridendo nella tomba. Che pretesa sarebbe la nostra se volessimo parlare di ciò che, per definizione, sfugge al discorso! Dio non si racconta. L'apostolo parla, il contemplativo tace.
Conoscete il ruolo che svolge la mania nel teatro greco. Gl'insensati vi sono trattati come i messaggeri degli dei, poiché ciò che dicono è impenetrabile e non può venire che da un altro mondo. Ma ciò che impressionava tanto i Greci, oggi non interessa più a nessuno. Chi si preoccupa di un altro mondo? Gli uomini hanno paura dell'ignoto e lo allontanano dalla propria visuale. Quest'altro mondo, che dovrebbe essere l'atmosfera dell'anima battezzata, il suo centro vitale, il suo respiro felice, quest'altro mondo è così inaccessibile all'uomo moderno come lo era la Realtà ai prigionieri della caverna, condannati a guardare sui muri le ombre che gesticolavano. Per parlare agli uomini della Realtà bisognerebbe essere un visionario o un profeta. Taluni di noi hanno scritto quello che hanno visto, ma ciò non ha che valore di simbolo, come la geometria astratta. Cercheremo piuttosto di convincere i nostri fratelli del secolo a spezzare i lacci, a voltarsi, a cambiare posizione, a rischio di rompersi le ossa. Questo voltarsi doloroso implica nel contempo un cambiamento di posizione e d'illuminazione. Si tratta della conversione, parola essenziale che presso gli antichi designava lo stato monastico. Mi direte: ma, sin qui ci era stato detto che i monaci avevano fondato una civiltà, che avevano trasmesso la cultura antica, ricopiato i manoscritti, prosciugato le paludi. Le abbazie ci vengono presentate come accademie della scienza - come direbbe Jean Guitton, delle centrali nucleari dello spirito -, l'Europa medievale ricoperta da un bianco mantello di monasteri: è una stampa di Epinal? No, ma è la verità della storia.
La storia ha contato a Saint-Benoit-sur-Loire più di 5.000 studenti; nel X secolo l'abbazia Saint-Germain d'Auxerre riceve 2.000 allievi e 600 religiosi. Gerbert, pastorello dell'Auvergne che diventerà il più grande sapiente del suo tempo, lascia il suo monastero per andare a studiare la matematica a Barcellona, dirige le scuole di Reims e favorisce l'elezione di Ugo Capeto, poi diventa precettore dell'imperatore di Germania, e termina al soglio di Pietro con il nome di Silvestro II. Ecco dunque dei monaci sapienti, uomini di cultura e civiltà, monasteri elevarsi come moli di pace e stabilità. Cluny diventa, ci dice Edmond Pognon, la capitale del più vasto impero monastico che la cristianità abbia mai conosciuto; lo storico ce ne dà una descrizione ammirevole: "Cluny è la forza nuova, pura e impietosa, che deve sbriciolare i quadri impolverati della società cristiana e fare regnare ovunque la virtù e il timore di Dio". Nel secolo XIV, più di 1.400 case dipendevano dalla celebre abbazia. Tutto questo è vero, è la storia, sono le cifre, è quanto può essere raccontato. E ancora bisognerebbe aggiungere, per correttezza, l'irradiamento umano e soprannaturale dei grandi abati di Cluny, provvidenza dei poveri, consiglieri dei Papi, riconciliatori dei principi. Ecco qualcosa non privo di grandezza: nessuno fra noi che non valuti la sproporzione flagrante fra le nostre pallide realizzazioni e i vertici raggiunti dagli antichi monaci.
Eppure noi siamo più prossimi a loro di quanto non appaia, ma per un'altra ragione. Per quale mistero un gran signore o un vescovo venivano a nascondere la propria identità per vivere a Cluny nell'anonimato, come dei semplici guardiani di porcile? Ve ne darò la ragione, ma è una ragione che affonda essa stessa nel mistero delle anime: è la sete. La sete di non essere niente affinché Dio sia tutto, l'abbandono di ciò che non è eterno, il desiderio di un faccia a faccia silenzioso nella fede con il Cristo restauratore dell'universo, che trasformerà il nostro corpo di miseria per configurarlo al suo corpo di gloria.

[Dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), Le secret des moines, postfazione a Marc Dem, Dom Gérard et l'aventure monastique, Plon, Parigi 1988, pp. 193-198, ripreso in La vocation monastique, Editions Sainte-Madeleine, Le Barroux 1990, pp. 39-47, e infine in Les amis du monastère, n. 126, giugno 2008, pp. 5-7 (qui p. 5), trad. it di fr. Romualdo Obl.S.B. - 1 / segue]

Mel in ore, in aure melos, in corde iubilum

Catechesi di Benedetto XVI di mercoledì 21 ottobre 2009, quando il Papa, continuando il ciclo sui Padri della Chiesa, si è soffermato sulla figura di San Bernardo di Chiaravalle.


Cari fratelli e sorelle,

oggi vorrei parlare su san Bernardo di Chiaravalle, chiamato “l’ultimo dei Padri” della Chiesa, perché nel XII secolo, ancora una volta, rinnovò e rese presente la grande teologia dei Padri. Non conosciamo in dettaglio gli anni della sua fanciullezza; sappiamo comunque che egli nacque nel 1090 a Fontaines in Francia, in una famiglia numerosa e discretamente agiata. Giovanetto, si prodigò nello studio delle cosiddette arti liberali – specialmente della grammatica, della retorica e della dialettica – presso la scuola dei Canonici della chiesa di Saint-Vorles, a Châtillon-sur-Seine e maturò lentamente la decisione di entrare nella vita religiosa. Intorno ai vent’anni entrò a Cîteaux, una fondazione monastica nuova, più agile rispetto agli antichi e venerabili monasteri di allora e, al tempo stesso, più rigorosa nella pratica dei consigli evangelici. Qualche anno più tardi, nel 1115, Bernardo venne inviato da santo Stefano Harding, terzo Abate di Cîteaux, a fondare il monastero di Chiaravalle (Clairvaux). Qui il giovane Abate, aveva solo venticinque anni, poté affinare la propria concezione della vita monastica, e impegnarsi nel tradurla in pratica. Guardando alla disciplina di altri monasteri, Bernardo richiamò con decisione la necessità di una vita sobria e misurata, nella mensa come negli indumenti e negli edifici monastici, raccomandando il sostentamento e la cura dei poveri. Intanto la comunità di Chiaravalle diventava sempre più numerosa, e moltiplicava le sue fondazioni.

In quegli stessi anni, prima del 1130, Bernardo avviò una vasta corrispondenza con molte persone, sia importanti che di modeste condizioni sociali. Alle tante Lettere di questo periodo bisogna aggiungere numerosi Sermoni, come anche Sentenze e Trattati. Sempre a questo tempo risale la grande amicizia di Bernardo con Guglielmo, Abate di Saint-Thierry, e con Guglielmo di Champeaux, figure tra le più importanti del XII secolo. Dal 1130 in poi, iniziò a occuparsi di non pochi e gravi questioni della Santa Sede e della Chiesa. Per tale motivo dovette sempre più spesso uscire dal suo monastero, e talvolta fuori dalla Francia. Fondò anche alcuni monasteri femminili, e fu protagonista di un vivace epistolario con Pietro il Venerabile, Abate di Cluny, sul quale ho parlato mercoledì scorso. Diresse soprattutto i suoi scritti polemici contro Abelardo, un grande pensatore che ha iniziato un nuovo modo di fare teologia, introducendo soprattutto il metodo dialettico-filosofico nella costruzione del pensiero teologico. Un altro fronte contro il quale Bernardo ha lottato è stata l’eresia dei Catari, che disprezzavano la materia e il corpo umano, disprezzando, di conseguenza, il Creatore. Egli, invece, si sentì in dovere di prendere le difese degli ebrei, condannando i sempre più diffusi rigurgiti di antisemitismo. Per quest’ultimo aspetto della sua azione apostolica, alcune decine di anni più tardi, Ephraim, rabbino di Bonn, indirizzò a Bernardo un vibrante omaggio. In quel medesimo periodo il santo Abate scrisse le sue opere più famose, come i celeberrimi Sermoni sul Cantico dei Cantici. Negli ultimi anni della sua vita – la sua morte sopravvenne nel 1153 – Bernardo dovette limitare i viaggi, senza peraltro interromperli del tutto. Ne approfittò per rivedere definitivamente il complesso delle Lettere, dei Sermoni e dei Trattati. Merita di essere menzionato un libro abbastanza particolare, che egli terminò proprio in questo periodo, nel 1145, quando un suo allievo, Bernardo Pignatelli, fu eletto Papa col nome di Eugenio III. In questa circostanza, Bernardo, in qualità di Padre spirituale, scrisse a questo suo figlio spirituale il testo De Consideratione, che contiene insegnamenti per poter essere un buon Papa. In questo libro, che rimane una lettura conveniente per i Papi di tutti i tempi, Bernardo non indica soltanto come fare bene il Papa, ma esprime anche una profonda visione del mistero della Chiesa e del mistero di Cristo, che si risolve, alla fine, nella contemplazione del mistero di Dio trino e uno: “Dovrebbe proseguire ancora la ricerca di questo Dio, che non è ancora abbastanza cercato”, scrive il santo Abate “ma forse si può cercare meglio e trovare più facilmente con la preghiera che con la discussione. Mettiamo allora qui termine al libro, ma non alla ricerca” (XIV, 32: PL 182, 808), all’essere in cammino verso Dio.

Vorrei ora soffermarmi solo su due aspetti centrali della ricca dottrina di Bernardo: essi riguardano Gesù Cristo e Maria santissima, sua Madre. La sua sollecitudine per l’intima e vitale partecipazione del cristiano all’amore di Dio in Gesù Cristo non porta orientamenti nuovi nello statuto scientifico della teologia. Ma, in maniera più che mai decisa, l’Abate di Clairvaux configura il teologo al contemplativo e al mistico. Solo Gesù – insiste Bernardo dinanzi ai complessi ragionamenti dialettici del suo tempo – solo Gesù è “miele alla bocca, cantico all’orecchio, giubilo nel cuore (mel in ore, in aure melos, in corde iubilum)”. Viene proprio da qui il titolo, a lui attribuito dalla tradizione, di Doctor mellifluus: la sua lode di Gesù Cristo, infatti, “scorre come il miele”. Nelle estenuanti battaglie tra nominalisti e realisti – due correnti filosofiche dell’epoca - l’Abate di Chiaravalle non si stanca di ripetere che uno solo è il nome che conta, quello di Gesù Nazareno. “Arido è ogni cibo dell’anima”, confessa, “se non è irrorato con questo olio; insipido, se non è condito con questo sale. Quello che scrivi non ha sapore per me, se non vi avrò letto Gesù”. E conclude: “Quando discuti o parli, nulla ha sapore per me, se non vi avrò sentito risuonare il nome di Gesù” (Sermones in Cantica Canticorum XV, 6: PL 183,847). Per Bernardo, infatti, la vera conoscenza di Dio consiste nell’esperienza personale, profonda di Gesù Cristo e del suo amore. E questo, cari fratelli e sorelle, vale per ogni cristiano: la fede è anzitutto incontro personale, intimo con Gesù, è fare esperienza della sua vicinanza, della sua amicizia, del suo amore, e solo così si impara a conoscerlo sempre di più, ad amarlo e seguirlo sempre più. Che questo possa avvenire per ciascuno di noi!

In un altro celebre Sermone nella domenica fra l’ottava dell’Assunzione, il santo Abate descrive in termini appassionati l’intima partecipazione di Maria al sacrificio redentore del Figlio. “O santa Madre, - egli esclama - veramente una spada ha trapassato la tua anima!... A tal punto la violenza del dolore ha trapassato la tua anima, che a ragione noi ti possiamo chiamare più che martire, perché in te la partecipazione alla passione del Figlio superò di molto nell’intensità le sofferenze fisiche del martirio” (14: PL 183,437-438). Bernardo non ha dubbi: “per Mariam ad Iesum”, attraverso Maria siamo condotti a Gesù. Egli attesta con chiarezza la subordinazione di Maria a Gesù, secondo i fondamenti della mariologia tradizionale. Ma il corpo del Sermone documenta anche il posto privilegiato della Vergine nell’economia della salvezza, a seguito della particolarissima partecipazione della Madre (compassio) al sacrificio del Figlio. Non per nulla, un secolo e mezzo dopo la morte di Bernardo, Dante Alighieri, nell’ultimo canto della Divina Commedia, metterà sulle labbra del “Dottore mellifluo” la sublime preghiera a Maria: “Vergine Madre, figlia del tuo Figlio,/umile ed alta più che creatura,/termine fisso d’eterno consiglio, …” (Paradiso 33, vv. 1ss.).

Queste riflessioni, caratteristiche di un innamorato di Gesù e di Maria come san Bernardo, provocano ancor oggi in maniera salutare non solo i teologi, ma tutti i credenti. A volte si pretende di risolvere le questioni fondamentali su Dio, sull’uomo e sul mondo con le sole forze della ragione. San Bernardo, invece, solidamente fondato sulla Bibbia e sui Padri della Chiesa, ci ricorda che senza una profonda fede in Dio, alimentata dalla preghiera e dalla contemplazione, da un intimo rapporto con il Signore, le nostre riflessioni sui misteri divini rischiano di diventare un vano esercizio intellettuale, e perdono la loro credibilità. La teologia rinvia alla “scienza dei santi”, alla loro intuizione dei misteri del Dio vivente, alla loro sapienza, dono dello Spirito Santo, che diventano punto di riferimento del pensiero teologico. Insieme a Bernardo di Chiaravalle, anche noi dobbiamo riconoscere che l’uomo cerca meglio e trova più facilmente Dio “con la preghiera che con la discussione”. Alla fine, la figura più vera del teologo e di ogni evangelizzatore rimane quella dell’apostolo Giovanni, che ha poggiato il suo capo sul cuore del Maestro.

Vorrei concludere queste riflessioni su san Bernardo con le invocazioni a Maria, che leggiamo in una sua bella omelia. “Nei pericoli, nelle angustie, nelle incertezze, - egli dice - pensa a Maria, invoca Maria. Ella non si parta mai dal tuo labbro, non si parta mai dal tuo cuore; e perché tu abbia ad ottenere l'aiuto della sua preghiera, non dimenticare mai l'esempio della sua vita. Se tu la segui, non puoi deviare; se tu la preghi, non puoi disperare; se tu pensi a lei, non puoi sbagliare. Se ella ti sorregge, non cadi; se ella ti protegge, non hai da temere; se ella ti guida, non ti stanchi; se ella ti è propizia, giungerai alla meta...” (Hom. II super «Missus est», 17: PL 183, 70-71).

domenica 18 ottobre 2009

Tradizione e obbedienza

A pochi giorni dall'inizio dei colloqui dottrinali fra la Santa Sede e la Fraternità Sacerdotale San Pio X, ricordiamo a titolo di pro-memoria - e di monito spirituale e teologico - quanto ebbe a dire dom Gérard Calvet O.S.B., allora priore del monastero Sainte-Madeleine di Le Barroux, nelle immediate e dolorose settimane successive al gesto scismatico dell'estate 1988.

«(...) Tradizione e Obbedienza. Che felicità se potessimo dare ai nostri fratelli ancora diffidenti la prova che la Tradizione della Chiesa trasmessa da secoli può, ancora ai nostri giorni, vivere e irradiarsi senza alterazione all'interno dei suoi limiti visibili! Più che un auspicio, si tratta, con tutta la forza della sua evidenza, di una certezza che vorremmo condividere; non che essa sia per noi l'oggetto di una scelta personale, ma al contrario, poiché essa s'impone, oggettiva, inscritta nel duro marmo della natura delle cose: chi potrebbe dubitare un solo istante che Gesù, Re e Sacerdote, Legislatore supremo, non possa mantenere intatto, nel seno stesso della sua Chiesa, l'organo essenziale della trasmissione delle grazie che chiamiamo la Tradizione?» (Les Amis du Monastère, n. 44, 17 ottobre 1988, p. 2).

sabato 17 ottobre 2009

Salmodiare con saggezza

La Regola di san Benedetto consiglia ai monaci di salmodiare con saggezza, cioè con gusto (psallite sapienter). Ma di che gusto si tratta?

Ci sia consentito porre in primo luogo ciò che viene per primo. Quanto è richiesto per gustare i salmi non è anzitutto la scienza esegetica, per quanto necessaria essa sia d’altronde, né la filosofia, né la sensibilità letteraria; è la fede. La fede nell’atto liturgico della recitazione. Non solo sapere che i salmi sono stati ispirati più di duemila anni fa al santo re David, ma ancora ravvivare senza fine la fede nell’atto stesso mediante il quale prestiamo i nostri cuori e le nostre labbra alla Sposa affinché colei che è la nuova Eva, associata a Cristo – socia Christi –, possa cantare Dio con i pensieri e le parole di Dio, in un certo ordine stabilito , il solo abilitato a esprimere la preghiera pubblica della Chiesa. Quest’incontro solenne dello Sposo e della Sposa non può patire l’improvvisazione. Esige un sacro protocollo al quale ogni deroga toglie qualcosa della sua misteriosa efficacia.

Ho inteso qualche tempo fa una folla, riunita attorno a dei giovani sacerdoti animati dalle migliori intenzioni, che cantava alle nove del mattino un ufficio detto “Laudi” nel quale si distingueva un insieme di salmi più o meno bene organizzati, su un ritmo sincopato, accompagnati dal battito di mani. Era la preghiera della Chiesa? Una preghiera comunitaria non diventa liturgica con la forza del fervore. La liturgia della Chiesa non s’inventa, non si evolve, non si costruisce, non si perfeziona. Essa non cerca di adattarsi a una sensibilità temporanea, ma s’impone dall’alto. La preghiera liturgica è un dato.

Dalla morte di Pio XII, si è stati testimoni di una specie di vacatio legis, che se volete potete tradurre come “legge in vacanza”. Si è stati testimoni di una serie di adattamenti e creatività che hanno distrutto nel popolo e in un gran numero di sacerdoti il senso della trascendenza della preghiera della Chiesa, che oltrepasserà sempre infinitamente, per la sua stessa natura, i cantici religiosi di un’epoca, quali che essi siano.


[Dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), Psalmodier avec sagesse, in Idem, Le chant des Psaumes, Editions Sainte-Madeleine, Le Barroux 2004, pp. 11-13, trad. it di fr. Romualdo Obl.S.B.]

mercoledì 14 ottobre 2009

L’equilibrio in altitudine. Meditazioni sulla Regola / quarta parte

In un senso ancor più profondo, la Regola c’insegna l’uso armonioso del tempo, cosa pressoché completamente dimenticata dal nostro mondo d’idolatria del temporale.
Il tempo, riflesso del movimento circolare degli astri, «immagine mobile dell’eternità immobile», ha per essenza il ritmo; è continuo e irreversibile, ma riconduce senza fine i medesimi fenomeni — giorni e stagioni, ascese e declini, vita e morte, ecc. — nella sua gravitazione attorno al medesimo centro. «Il ritmo è la palpitazione dell’eterno nella durata», afferma un romanticista tedesco. De-ritmare il tempo — sia stiracchiandolo per l’ozio e la noia, sia colpendolo con il trambusto e il superlavoro — è commettere un peccato contro l’eterno, di cui è immagine e percorso. E perdere il proprio tempo è già perdere la propria anima.
In questo la Regola è un capolavoro d’adattamento del tempo dell’uomo al tempo di Dio. Per essa ogni ora è l’ora del Signore. Come diceva Simone Weil, essa ha per effetto «di rendere più sensibile il carattere circolare del tempo», cioè d’impregnare senza fine il presente d’eternità, ogni punto della circonferenza rimanendo ugualmente sottomesso all’attrazione del centro. Il monaco perfetto vive nella redenzione perpetua dell’effimero da parte dell’eterno.
Monotonia, uniformità, diranno le menti viziate dalla febbre del secolo, per la quale l’immagine del cerchio evoca quella della prigione. Ciò significa dimenticare che il ritmo non assume mai l’identico, ma il simile, che è zampillio permanente e non ripetizione meccanica. Vi è uniformità nel volo circolare dell’aquila, nell’ondulazione delle onde del mare, nel fruscio delle foglie al vento, nella successione delle primavere? Nulla in natura è la riproduzione assoluta di quanto lo ha preceduto; tutto assomiglia a ciò che è stato e tutto è «ciò che mai si vedrà due volte». Non vi è monotonia in Dio né nell’opera di Dio. Ciò che è monotono, rimasticato, che gira in tondo — ma non nello stesso cerchio: in quello di una gravitazione senza stella — è il prurito della novità a ogni costo, è la moda che dipinge sui muri del tempo, vissuti come una prigione, delle false finestre per un’evasione illusoria.
Ma il tempo non è solo l’immagine dell’eterno: ne è anche la prova. San Benedetto sottolinea il fatto tragico che noi non abbiamo se non questa vita per realizzare la nostra salvezza, e ognuno dei nostri passi sulla terra lascia un’impronta indelebile nel mondo in cui nulla cambia: «finche c’è tempo e siamo in questo corpo e abbiamo la possibilità di compiere tutte queste buone azioni, dobbiamo correre e operare adesso quanto ci sarà utile per l’eternità». In altre parole, tutto ciò che non è semente d’eternità è una perdita di tempo. Di fronte alla cronolatria moderna che altro non è se non la prostituzione del tempo a sé stessa, è possibile dare al tempo un più profondo omaggio che scorgervi, a seconda dell’impiego che ne facciamo, l’ostetrica o l’abortista di un’anima immortale?
[Gustave Thibon (1903-2001), L'équilibre dans l'altitude. Méditations sur la Règle, in Itinéraires, n. 246, settembre-ottobre 1980, pp. 71-77 (qui pp. 73-75), trad. it di fr. Romualdo Obl.S.B. - 4 / segue]

sabato 10 ottobre 2009

Monastero San Benedetto di Bergamo

La Comunità benedettina del Monastero San Benedetto di Bergamo annuncia con gioia l’avvenuta elezione della nuova Madre Abbadessa: Sr. M. Tarcisia Pezzoli O.S.B.

Ci uniamo con fraterne preghiere al ministero d’amore a cui la nuova Madre Abbadessa è stata chiamata per guidare il “piccolo gregge” che il Signore le ha affidato.

venerdì 9 ottobre 2009

L’arte di vivere l’umanesimo vero

Catechesi di Benedetto XVI in occasione dell’Udienza generale di mercoledì 9 aprile 2008, quando il Papa, continuando il ciclo sui Padri della Chiesa, si è soffermato sulla figura di San Benedetto da Norcia.


Cari fratelli e sorelle,


vorrei oggi parlare di san Benedetto, Fondatore del monachesimo occidentale, e anche Patrono del mio pontificato. Comincio con una parola di san Gregorio Magno, che scrive di san Benedetto: «L’uomo di Dio che brillò su questa terra con tanti miracoli non rifulse meno per l’eloquenza con cui seppe esporre la sua dottrina» (Dial. II, 36). Queste parole il grande Papa scrisse nell’anno 592; il santo monaco era morto appena 50 anni prima ed era ancora vivo nella memoria della gente e soprattutto nel fiorente Ordine religioso da lui fondato. San Benedetto da Norcia con la sua vita e la sua opera ha esercitato un influsso fondamentale sullo sviluppo della civiltà e della cultura europea. La fonte più importante sulla vita di lui è il secondo libro dei Dialoghi di san Gregorio Magno. Non è una biografia nel senso classico. Secondo le idee del suo tempo, egli vuole illustrare mediante l’esempio di un uomo concreto – appunto di san Benedetto – l’ascesa alle vette della contemplazione, che può essere realizzata da chi si abbandona a Dio. Quindi ci dà un modello della vita umana come ascesa verso il vertice della perfezione. San Gregorio Magno racconta anche, in questo libro dei Dialoghi, di molti miracoli compiuti dal Santo, ed anche qui non vuole semplicemente raccontare qualche cosa di strano, ma dimostrare come Dio, ammonendo, aiutando e anche punendo, intervenga nelle concrete situazioni della vita dell’uomo. Vuole mostrare che Dio non è un’ipotesi lontana posta all’origine del mondo, ma è presente nella vita dell’uomo, di ogni uomo.


Questa prospettiva del «biografo» si spiega anche alla luce del contesto generale del suo tempo: a cavallo tra il V e il VI secolo il mondo era sconvolto da una tremenda crisi di valori e di istituzioni, causata dal crollo dell’Impero Romano, dall’invasione dei nuovi popoli e dalla decadenza dei costumi. Con la presentazione di san Benedetto come «astro luminoso», Gregorio voleva indicare in questa situazione tremenda, proprio qui in questa città di Roma, la via d’uscita dalla «notte oscura della storia» (cfr Giovanni Paolo II, Insegnamenti, II/1, 1979, p. 1158). Di fatto, l’opera del Santo e, in modo particolare, la sua Regola si rivelarono apportatrici di un autentico fermento spirituale, che mutò nel corso dei secoli, ben al di là dei confini della sua Patria e del suo tempo, il volto dell’Europa, suscitando dopo la caduta dell’unità politica creata dall’impero romano una nuova unità spirituale e culturale, quella della fede cristiana condivisa dai popoli del continente. È nata proprio così la realtà che noi chiamiamo «Europa». La nascita di san Benedetto viene datata intorno all’anno 480. Proveniva, così dice san Gregorio, «ex provincia Nursiae» – dalla regione della Nursia. I suoi genitori benestanti lo mandarono per la sua formazione negli studi a Roma. Egli però non si fermò a lungo nella Città eterna. Come spiegazione pienamente credibile, Gregorio accenna al fatto che il giovane Benedetto era disgustato dallo stile di vita di molti suoi compagni di studi, che vivevano in modo dissoluto, e non voleva cadere negli stessi loro sbagli. Voleva piacere a Dio solo; «soli Deo placere desiderano» (II Dial., Prol 1). Così, ancora prima della conclusione dei suoi studi, Benedetto lasciò Roma e si ritirò nella solitudine dei monti ad est di Roma. Dopo un primo soggiorno nel villaggio di Effide (oggi: Affile), dove per un certo periodo si associò ad una «comunità religiosa» di monaci, si fece eremita nella non lontana Subiaco. Lì visse per tre anni completamente solo in una grotta che, a partire dall’Alto Medioevo, costituisce il «cuore» di un monastero benedettino chiamato «Sacro Speco». Il periodo in Subiaco, un periodo di solitudine con Dio, fu per Benedetto un tempo di maturazione. Qui doveva sopportare e superare le tre tentazioni fondamentali di ogni essere umano: la tentazione dell’autoaffermazione e del desiderio di porre se stesso al centro, la tentazione della sensualità e, infine, la tentazione dell’ira e della vendetta. Era infatti convinzione di Benedetto che, solo dopo aver vinto queste tentazioni, egli avrebbe potuto dire agli altri una parola utile per le loro situazioni di bisogno. E così, riappacificata la sua anima, era in grado di controllare pienamente le pulsioni dell’io, per essere così un creatore di pace intorno a sé. Solo allora decise di fondare i primi suoi monasteri nella valle dell’Anio, vicino a Subiaco.


Nell’anno 529 Benedetto lasciò Subiaco per stabilirsi a Montecassino. Alcuni hanno spiegato questo trasferimento come una fuga davanti agli intrighi di un invidioso ecclesiastico locale. Ma questo tentativo di spiegazione si è rivelato poco convincente, giacché la morte improvvisa di lui non indusse Benedetto a ritornare (II Dial., 8). In realtà, questa decisione gli si impose perché era entrato in una nuova fase della sua maturazione interiore e della sua esperienza monastica. Secondo Gregorio Magno, l’esodo dalla remota valle dell’Anio verso il Monte Cassio – un’altura che, dominando la vasta pianura circostante, è visibile da lontano – riveste un carattere simbolico: la vita monastica nel nascondimento ha una sua ragion d’essere, ma un monastero ha anche una sua finalità pubblica nella vita della Chiesa e della società, deve dare visibilità alla fede come forza di vita. Di fatto, quando, il 21 marzo 547, Benedetto concluse la sua vita terrena, lasciò con la sua Regola e con la famiglia benedettina da lui fondata un patrimonio che ha portato nei secoli trascorsi e porta tuttora frutto in tutto il mondo. Nell’intero secondo libro dei Dialoghi Gregorio ci illustra come la vita di san Benedetto fosse immersa in un’atmosfera di preghiera, fondamento portante della sua esistenza. Senza preghiera non c’è esperienza di Dio. Ma la spiritualità di Benedetto non era un’interiorità fuori dalla realtà. Nell’inquietudine e nella confusione del suo tempo, egli viveva sotto lo sguardo di Dio e proprio così non perse mai di vista i doveri della vita quotidiana e l’uomo con i suoi bisogni concreti. Vedendo Dio capì la realtà dell’uomo e la sua missione. Nella sua Regola egli qualifica la vita monastica «una scuola del servizio del Signore» (Prol. 45) e chiede ai suoi monaci che «all’Opera di Dio [cioè all’Ufficio Divino o alla Liturgia delle Ore] non si anteponga nulla» (43,3). Sottolinea, però, che la preghiera è in primo luogo un atto di ascolto (Prol. 9-11), che deve poi tradursi nell’azione concreta. «Il Signore attende che noi rispondiamo ogni giorno coi fatti ai suoi santi insegnamenti», egli afferma (Prol. 35). Così la vita del monaco diventa una simbiosi feconda tra azione e contemplazione «affinché in tutto venga glorificato Dio» (57,9). In contrasto con una autorealizzazione facile ed egocentrica, oggi spesso esaltata, l’impegno primo ed irrinunciabile del discepolo di san Benedetto è la sincera ricerca di Dio (58,7) sulla via tracciata dal Cristo umile ed obbediente (5,13), all’amore del quale egli non deve anteporre alcunché (4,21; 72,11) e proprio così, nel servizio dell’altro, diventa uomo del servizio e della pace. Nell’esercizio dell’obbedienza posta in atto con una fede animata dall’amore (5,2), il monaco conquista l’umiltà (5,1), alla quale la Regola dedica un intero capitolo (7). In questo modo l’uomo diventa sempre più conforme a Cristo e raggiunge la vera autorealizzazione come creatura ad immagine e somiglianza di Dio.


All’obbedienza del discepolo deve corrispondere la saggezza dell’Abate, che nel monastero tiene «le veci di Cristo» (2,2; 63,13). La sua figura, delineata soprattutto nel secondo capitolo della Regola, con un profilo di spirituale bellezza e di esigente impegno, può essere considerata come un autoritratto di Benedetto, poiché – come scrive Gregorio Magno – «il Santo non poté in alcun modo insegnare diversamente da come visse» (Dial. II, 36). L’Abate deve essere insieme un tenero padre e anche un severo maestro (2,24), un vero educatore. Inflessibile contro i vizi, è però chiamato soprattutto ad imitare la tenerezza del Buon Pastore (27,8), ad «aiutare piuttosto che a dominare» (64,8), ad «accentuare più con i fatti che con le parole tutto ciò che è buono e santo» e ad «illustrare i divini comandamenti col suo esempio» (2,12). Per essere in grado di decidere responsabilmente, anche l’Abate deve essere uno che ascolta «il consiglio dei fratelli» (3,2), perché «spesso Dio rivela al più giovane la soluzione migliore» (3,3). Questa disposizione rende sorprendentemente moderna una Regola scritta quasi quindici secoli fa! Un uomo di responsabilità pubblica, e anche in piccoli ambiti, deve sempre essere anche un uomo che sa ascoltare e sa imparare da quanto ascolta. Benedetto qualifica la Regola come «minima, tracciata solo per l’inizio» (73,8); in realtà però essa offre indicazioni utili non solo ai monaci, ma anche a tutti coloro che cercano una guida nel loro cammino verso Dio. Per la sua misura, la sua umanità e il suo sobrio discernimento tra l’essenziale e il secondario nella vita spirituale, essa ha potuto mantenere la sua forza illuminante fino ad oggi. Paolo VI, proclamando nel 24 ottobre 1964 san Benedetto Patrono d’Europa, intese riconoscere l’opera meravigliosa svolta dal Santo mediante la Regola per la formazione della civiltà e della cultura europea. Oggi l’Europa – uscita appena da un secolo profondamente ferito da due guerre mondiali e dopo il crollo delle grandi ideologie rivelatesi come tragiche utopie – è alla ricerca della propria identità. Per creare un’unità nuova e duratura, sono certo importanti gli strumenti politici, economici e giuridici, ma occorre anche suscitare un rinnovamento etico e spirituale che attinga alle radici cristiane del Continente, altrimenti non si può ricostruire l’Europa. Senza questa linfa vitale, l’uomo resta esposto al pericolo di soccombere all’antica tentazione di volersi redimere da sé – utopia che, in modi diversi, nell’Europa del Novecento ha causato, come ha rilevato il Papa Giovanni Paolo II, «un regresso senza precedenti nella tormentata storia dell’umanità» (Insegnamenti, XIII/1, 1990, p. 58). Cercando il vero progresso, ascoltiamo anche oggi la Regola di san Benedetto come una luce per il nostro cammino. Il grande monaco rimane un vero maestro alla cui scuola possiamo imparare l’arte di vivere l’umanesimo vero.

martedì 6 ottobre 2009

Teologia della liturgia

Il Concilio Vaticano II definisce la liturgia come "l'opera del Cristo sacerdote e del suo corpo che è la Chiesa" (S.C., 7). L'opera di Gesù Cristo è designata nello stesso testo come l’opera della redenzione che il Cristo ha compiuto in modo particolare attraverso il mistero pasquale della Sua passione, della Sua Resurrezione dai morti e della Sua gloriosa ascensione. "Con questo mistero, morendo, ha distrutto la nostra morte e, risorgendo, ha restaurato la vita" (S.C., 5). A prima vista, in queste due frasi la parola "opera del Cristo" sembra utilizzata in due distinti significati. L’opera del Cristo designa in primo luogo le azioni redentrici storiche di Gesù, la Sua morte e la Sua Resurrezione; d’altra parte si definisce "opera del Cristo" la celebrazione della liturgia. In realtà, i due significati sono inseparabilmente legati: la morte e la Resurrezione, il mistero pasquale non sono soltanto avvenimenti storici esteriori. Per la Resurrezione, questo appare molto chiaramente.
Raggiunge e penetra la storia, ma la trascende in un doppio senso; non è l’azione di un uomo bensì una azione di Dio, e conduce in tal modo Gesù risuscitato oltre la storia, là dove siede alla destra del Padre. Neanche la croce è una semplice azione umana.
L’aspetto puramente umano è presente nelle persone che condussero Gesù alla croce. Per Gesù, la croce non è un’azione, ma una passione, e una passione che significa che Egli è un tutt’uno con la volontà divina, un’unione della quale l’episodio dell’Orto degli Ulivi ci fa vedere l’aspetto drammatico.
Così la dimensione passiva della Sua messa a morte si trasforma nella dimensione attiva dell’amore: la morte diventa abbandono di se stesso al Padre per gli uomini. In questo modo l’orizzonte si estende, qui come nella Resurrezione, ben al di là del puro aspetto umano e ben al di là del puro fatto di essere stato crocifisso e di essere morto.
Il linguaggio della fede ha chiamato mistero questa eccedenza riguardo al mero istante storico e ha condensato nel termine mistero pasquale il nocciolo più intimo dell’avvenimento redentore. Se possiamo dire da allora in poi che il mistero pasquale costituì il nocciolo dell’opera di Gesù, il rapporto con la liturgia è già patente; è precisamente questa opera di Gesù che è il vero contenuto della liturgia. Tramite questa, con la fede e la preghiera della Chiesa, l’opera di Gesù raggiunge continuamente la storia per penetrarla.
Nella liturgia il puro istante storico è così trasceso di nuovo ed entra nell’azione divino-umana permanente della redenzione. In questa Cristo è il vero soggetto: e l’opera del Cristo, ma in essa Egli attira a sé la storia, precisamente in questa azione che è il luogo della nostra salvezza.

1. Il sacrificio rimesso in questione

Tornando al Vaticano II, vi troviamo la seguente descrizione di questi rapporti: "La liturgia, mediante la quale, soprattutto nel divino sacrificio dell’Eucaristia, si attua l’opera della nostra redenzione, contribuisce in sommo grado a che i fedeli esprimano nella loro vita e manifestino agli altri il mistero di Cristo e l’autentica natura della vera Chiesa" (ibid. n. 2).
Tutto ciò è diventato estraneo al pensiero moderno e nemmeno trent’anni dopo il concilio, persino tra i liturgisti cattolici, è oggetto di punti interrogativi. Oggi chi parla ancora del sacrificio divino dell’Eucaristia? Certo le discussioni intorno alla nozione di sacrificio sono tornate ad essere sorprendentemente vive, sia da parte cattolica che protestante. Si avverte che in un’idea che ha sempre occupato, sotto molte forme, non soltanto la storia della Chiesa, ma la storia intera dell’umanità, vi deve esserci l’espressione di qualche cosa di essenziale che riguarda anche noi.
Ma nello stesso tempo restano ancora vive ovunque le vecchie posizioni dell’illuminismo: accusa a priori di magia e di paganesimo, sistematiche opposizioni tra rito ed ethos, concezione di un cristianesimo che si libera dal culto ed entra nel mondo profano; teologi cattolici che non hanno per nulla voglia, per l’appunto, di vedersi tacciare di anti-modernità.
Anche se si ha in un modo o nell'altro il desiderio di ritrovare il concetto di sacrificio, ciò che alla fine resta è l’imbarazzo e la critica. Così recentemente Stephan Orth, in un vasto panorama della bibliografia recente consacrata al terna del sacrificio, ha creduto di riassumere tutta la sua inchiesta con le constatazioni seguenti: oggi, persino molti cattolici ratificano il verdetto e le conclusioni di Martin Lutero, per il quale parlare di sacrificio è il più grande e spaventoso errore, è una maledetta empietà.
Per questo motivo vogliamo astenerci da tutto ciò che sa di sacrificio, compreso tutto il canone e considerare solo tutto ciò che è santo e puro. Poi Orth aggiunge: dopo il Concilio Vaticano II questa massima fu seguita anche nella Chiesa cattolica, per lo meno come tendenza, e condusse a pensare anzitutto il culto divino a partire dalla festa della Pasqua, citata nel racconto della Cena. Facendo riferimento ad un’opera sul sacrificio edita da due liturgisti cattolici di avanguardia, dice in seguito, in termini un po’ più moderati, che appare chiaramente che la nozione di sacrificio della Messa, più ancora di quella del sacrificio della Croce, è nel migliore dei casi una nozione che si presta molto facilmente a malintesi.
Non è necessario che dica che io non faccio parte dei "numerosi" cattolici che considerano con Lutero come il più spaventoso errore e una maledetta empietà il fatto di parlare di sacrificio della Messa. Si comprende parimenti che il redattore abbia rinunciato a menzionare il mio libro sullo Spirito della liturgia che analizza nel dettaglio la nozione di sacrificio.
La sua diagnosi risulta costernante. È anche vera? Io non conosco questi numerosi cattolici che considerano come una maledetta empietà il fatto di comprendere l’Eucaristia come un sacrificio. La seconda diagnosi, più cauta, secondo la quale si considera la nozione di sacrificio della Messa come concetto altamente esposto a malintesi, si presta invece a facile verifica. Ma, se si lascia da parte la prima affermazione del redattore, non trovandoci che una esagerazione retorica, resta un problema sconvolgente che occorre risolvere. Una parte non trascurabile di liturgisti cattolici sembra essere praticamente arrivata alla conclusione che occorre dare sostanzialmente ragione a Lutero contro Trento nel dibattito del XVI secolo; si può del pari ampiamente constatare la medesima posizione nelle discussioni post-conciliari sul sacerdozio.
Il grande storico del Concilio di Trento, Hubert Jedin, indicava questo fatto nel 1975, nella prefazione all’ultimo volume della sua Storia del Concilio di Trento: "il lettore attento... non sarà, leggendo ciò, meno costernato dell’autore, quando si renderà conto del numero di cose, a dire il vero quasi tutte, che, avendo una volta agitato gli uomini, sono di nuovo proposte oggi".
Solo a partire da qui, dalla squalifica pratica di Trento, si può comprendere l’esasperazione che accompagna la lotta contro la possibilità di celebrare ancora, dopo la riforma liturgica, la Messa secondo il messale del 1962. Questa possibilità è la contraddizione più forte e quindi la meno tollerabile in rapporto all’opinione di colui che ritiene che la fede nell’Eucaristia formulata a Trento abbia perso il suo valore. Sarebbe facile raccogliere prove a sostegno di questa situazione.
Faccio astrazione dalla teologia liturgica estrema di Harald Schutzeichel, che si stacca completamente dal dogma cattolico ed espone, per esempio, l’affermazione avventurosa che soltanto nel Medioevo l’idea di presenza reale sarebbe stata inventata. Un liturgista di punta, come David N. Power, ci insegna che nel corso della storia non solo la maniera con la quale una verità viene espressa, ma lo stesso contenuto di ciò che vi è espresso può perdere il suo significato. Mette concretamente questa teoria in rapporto con gli enunciati di Trento.
Th. Schnitker ci dice che una liturgia rinnovata include egualmente una espressione differente della fede e dei cambiamenti teologici. Del resto, secondo lui ci sarebbero teologi, per lo meno nel cerchio della Chiesa romana e della sua liturgia, che non avrebbero ancora colto la portata di queste trasformazioni promosse dalla riforma liturgica nel campo della dottrina della fede. L’opera senza dubbio seria di R. Messner sulla riforma della Messa in Martin Lutero e l’Eucaristia della Chiesa antica, che contiene molte interessanti riflessioni, giunge tuttavia alla conclusione che Lutero comprese la Chiesa antica meglio di Trento.
La gravità di queste teorie consiste nel fatto che frequentemente passano subito nella pratica. La tesi secondo la quale è la comunità in quanto tale il soggetto della liturgia passa per una autorizzazione a manipolare la liturgia secondo la comprensione di ciascuno. Pretese nuove scoperte e le forme che ne conseguono si diffondono con una stupefacente rapidità e con una obbedienza riguardo a tali mode che da tempo non esiste più riguardo alle norme dell’autorità ecclesiastica. Delle teorie nel campo della liturgia si trasformano oggi molto rapidamente in pratica e la pratica, a sua volta, crea o distrugge comportamenti e forme di comprensione
La problematica del resto si è nel frattempo aggravata per il motivo che il movimento più recente dell’illuminismo supera di gran lunga Lutero. Mentre Lutero prendeva ancora alla lettera i racconti della Istituzione e li poneva come norma normans, come fondamento dei suoi tentativi di riforma, le ipotesi della critica storica stanno da tempo provocando un’ampia erosione dei testi.
I racconti della Cena appaiono come un prodotto della costruzione liturgica della comunità; dietro ad essi si cerca un Gesù storico che "naturalmente" non poteva aver pensato al dono del Suo corpo e del Suo sangue, né aver compreso la Sua croce come sacrificio di espiazione; bisognerebbe piuttosto pensare a un pasto d’addio contenente una prospettiva escatologica.
Non solo l’autorità del Magistero ecclesiale è declassata agli occhi di molti, ma anche la Scrittura, al posto della quale entrano delle ipotesi pseudo-storiche mutevoli, che in fondo daranno spazio a qual si voglia arbitrio ed espongono la liturgia alla mercé della moda. Laddove sulla base di tali idee si manipola sempre più liberamente la liturgia, i credenti sentono che in realtà nulla vi è celebrato ed è comprensibile che abbandonino la liturgia e con questa la Chiesa.

2. I princìpi della ricerca teologica

Torniamo dunque alla questione fondamentale: è giusto qualificare l’Eucaristia di sacrificio divino, oppure è una maledetta empietà? In questo dibattito occorre per prima cosa stabilire i principali presupposti che determinano in ogni caso la lettura della Scrittura e conseguentemente le conclusioni che se ne traggono. Per il cristiano cattolico qui si impongono due linee ermeneutiche essenziali di orientamento. La prima: noi diamo fiducia alla Scrittura e ci basiamo sulla Scrittura, non su ricostruzioni ipotetiche che si collocano al di qua di essa e ricostruiscono a modo loro una storia nella quale svolge un ruolo fondamentale la domanda presuntuosa di sapere ciò che si può o ciò che non si può attribuire a Gesù; il che significa "naturalmente" solo ciò che un erudito moderno vuole attribuire a un uomo di un tempo che lui stesso ha ricostruito.
La seconda è che noi leggiamo la Scrittura nella comunità vivente della Chiesa e dunque sulla base di decisioni fondamentali, grazie alle quali è divenuta storicamente efficace e ha precedentemente gettato le basi della Chiesa. Non bisogna separare il testo da questo contesto vivente. In questo senso la Scrittura e la Tradizione formano un tutto inseparabile e questo è il punto che Lutero, all’alba del risveglio dalla coscienza storica, non è riuscito a vedere. Egli credeva alla univocità della lettera, univocità che non esiste e alla quale ha da lungo tempo rinunciato la storiografia moderna.
Che nella Chiesa nascente, l’Eucaristia sia stata sin dall’inizio compresa come sacrificio, persino in un testo come la Didachè, difficile e piuttosto marginale in rapporto alla grande tradizione, è un elemento di interpretazione di prim’ordine. Ma c’è ancora un oltre aspetto ermeneutico fondamentale nella lettura e nella interpretazione della testimonianza biblica. Il fatto che io possa o no riconoscere un sacrificio nell’Eucaristia, così come il Signore l’ha istituita, si collega essenzialmente alla questione di sapere ciò che io intendo per sacrificio, dunque a ciò che si chiama pre-comprensione. La pre-comprensione di Lutero, per esempio, in particolare la sua concezione dell’avvenimento e della presenza storica della Chiesa, era tale che la categoria di sacrificio, così come egli la vedeva, non poteva nella sua applicazione all’Eucaristia della Chiesa apparire che come un’empietà.
I dibattiti ai quali si riferisce Stephan Orth mostrano quanto confusa e ingarbugliata è la nozione di sacrificio in quasi tutti gli autori e mettono in condizione di vedere tutto il lavoro da farsi sull’argomento. Per il teologo credente risulta evidente che è la stessa Scrittura che deve fargli da guida verso la definizione essenziale di sacrificio e ciò a partire da una lettura "canonica" della Bibbia nella quale la Scrittura è letta nella sua unità e nel suo movimento dinamico, le cui diverse tappe ricevono il loro significato ultimo da Cristo, al quale questo movimento nella sua interezza conduce. In questa stessa misura, l’ermeneutica qui presupposta è una ermeneutica della fede, fondata sulla sua logica interna. Non dovrebbe essere, in fondo, una evidenza? Poiché senza la fede, la stessa Scrittura non è la Scrittura, ma un insieme piuttosto disparato di brani letterari, il che non potrebbe rivendicare oggi alcun significato normativo.

3. Il sacrificio e la Pasqua

Il compito al quale si fa qui allusione supera di molto, beninteso, i limiti di una conferenza; mi sia allora permesso di rimandare al mio libro su Lo spirito della liturgia, nel quale ho cercato di tracciare le grandi linee di questa questione. Ciò che se no deduce è che, nel suo percorso attraverso la storia delle religioni e la storia biblica, la nozione di sacrificio assume delle connotazioni che vanno ben oltre la problematica che noi leghiamo abitualmente alla nozione di sacrificio. Di fatto, apre l’accesso alla comprensione globale del culto e della liturgia: sono queste grandi prospettive che vorrei tentare di indicare qui. In questo modo devo necessariamente rinunciare a questioni speciali d’esegesi, in particolare al problema fondamentale dell’interpretazione dei racconti dell’istituzione, riguardo alla quale, oltre al mio libro sulla liturgia, ho cercato di fornire alcuni elementi nel mio contributo su Eucaristia e Missione.
C’è tuttavia una indicazione che non posso impedirmi di dare. Nella menzionata rassegna bibliografica Stephan Orth dice che il fatto di avere evitato, dopo il Vaticano II, la nozione di sacrificio, ha condotto a "pensare il culto divino soprattutto a partire dal rito della Pasqua, rapportata nei racconti della Cena". Questa formulazione appare a prima vista ambigua: si pensa il culto divino a partire dalla Cena, oppure dalla festa di Pasqua che vengono indicate come quadro temporale, ma non vengono descritte ulteriormente? Sarebbe giusto dire che la Pasqua ebraica, la cui istituzione è riportata in Es 12, acquista nel Nuovo Testamento un nuovo senso. Proprio in essa si manifesta un grande movimento storico che va dalle origini fino alla Cena, alla Croce e alla Resurrezione di Gesù. Ma ciò che stupisce, soprattutto nella formulazione di Orth, è l’opposizione costruita tra l’idea di sacrificio e la Pasqua.
I dati veterotestamentari giudaici privano tutto ciò di senso, poiché dalla legislazione deutoronomistica l’uccisione degli agnelli è legata al tempio; ma persino nel periodo primitivo, in cui la Pasqua era ancora una festa familiare, l’uccisione degli agnelli aveva già un carattere sacrificale. Così, per l’appunto attraverso la tradizione della Pasqua, l’idea di sacrificio arriva fino alle parole e ai gesti della Cena, dove è presente, del resto, sulla base di un secondo passaggio veterotestamentario, Es 24, che riporta la conclusione dell’Alleanza del Sinai. Là è riferito che il popolo fu asperso col sangue delle vittime condotte in precedenza e che Mosè disse in quella occasione: "Questo è il sangue dell’alleanza che il Signore ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole" (Es 24,8).
La nuova Pasqua cristiana è così espressamente interpretata nei racconti della Cena come un avvenimento sacrificate e, sulla base delle parole della Cena, la Chiesa nascente sapeva che la croce era un sacrifico, poiché la Cena sarebbe stata un gesto vuoto senza la realtà della croce e della Resurrezione, che vi è anticipata e resa accessibile per tutti i tempi nel suo contenuto interno.
Menziono questa strana opposizione tra la Pasqua e il sacrificio, perché rappresenta il principio architettonico di un libro recentemente pubblicato dalla Fraternità San Pio X, che pretende esista una rottura dogmatica tra la nuova liturgia di Paolo VI e la precedente tradizione liturgica cattolica.
Questa rottura è vista precisamente nel fatto che tutto ormai si interpreta a partire dal "mistero pasquale" al posto del sacrificio redentore d’espiazione del Cristo; la categoria del mistero pasquale sarebbe l’anima della riforma liturgica ed è proprio questo a dare la prova della rottura verso la dottrina classica della Chiesa. È chiaro che vi sono autori che prestano il fianco a un simile malinteso. Ma che si tratti di un malinteso è assolutamente evidente per chi osserva il fatto da vicino. In realtà, il termine di mistero pasquale rinvia chiaramente agli avvenimenti che hanno avuto luogo nei giorni che vanno dal Giovedì Santo al mattino di Pasqua: la Cena come anticipazione della Croce, il dramma del Golgota e la Resurrezione del Signore.
Nel termine di mistero pasquale, questi episodi sono visti sinteticamente come un unico avvenimento, unitario, come "l’opera del Cristo", così come l’abbiamo inizialmente sentito dire dal Concilio, come una realtà che è storicamente avvenuta e allo stesso tempo trascende questo preciso istante. Poiché questo avvenimento è, interiormente, un culto reso a Dio, ha potuto diventare un culto divino e in questo modo essere presente in ogni istante. La teologia pasquale del Nuovo Testamento, alla quale abbiamo dato un rapido sguardo, dà precisamente a intendere questo: l’episodio apparentemente profano della crocifissione del Cristo è un sacrificio d’espiazione, un atto salvatore dell’amore riconciliatore del Dio fatto uomo. La teologia della Pasqua è una teologia della redenzione, una liturgia di un sacrificio espiatorio. Il pastore è diventato agnello. La visione dell’agnello, che appare nella storia di Isacco, dell’agnello che rimane impigliato negli sterpi e riscatta il figlio, è diventata una realtà: il Signore si fa agnello, si lascia legare e sacrificare, per liberarci.
Tutto ciò è divenuto estremamente estraneo al pensiero contemporaneo. Riparazione, "espiazione", può forse evocare qualche cosa nel quadro dei conflitti umani e nella liquidazione della colpabilità che regna tra gli esseri umani, ma la sua trasposizione al rapporto tra Dio e l’uomo non può sortire buon esito. Ciò si collega sicuramente al fatto che la nostra immagine di Dio è impallidita, si è avvicinata al deismo. Non ci si può più immaginare che l’errore umano possa ferire Dio e ancor meno che debba avere bisogno di una espiazione, simile a quella che costituisce la croce del Cristo. Stessa cosa per la sostituzione vicaria: non possiamo affatto rappresentarci qualche cosa a questo riguardo. La nostra immagine dell’uomo è diventata troppo individualista per questo.
Così la crisi della liturgia ha per base delle concezioni centrali sull’uomo. Per superarla, non è sufficiente banalizzare la liturgia e trasformarla in una semplice riunione o in un pasto fraterno. Ma come uscire da questi disorientamenti? Come ritrovare il senso di questa realtà immensa che è nel cuore del messaggio della Croce e della Resurrezione? In ultima istanza, certamente non attraverso delle teorie e delle riflessioni erudite, ma solo per mezzo della conversione, per mezzo di un radicale cambiamento di vita, al quale possono certamente aprire la strada taluni elementi di discernimento, e vorrei proporre delle indicazioni in questo senso e ciò in tre tappe.

4. L’amore, cuore del sacrificio

La prima tappa deve essere una questione preliminare alla comprensione essenziale del termine sacrificio. Si considera comunemente il sacrificio come la distruzione di una realtà preziosa agli occhi dell’uomo; distruggendola, egli vuole consacrare questa realtà a Dio, riconoscere la sua sovranità. Tuttavia, una distruzione non onora Dio. Ecatombi di animali o di qualsiasi cosa non possono onorare Dio. "Se avessi fame, a te non lo direi, mio è il mondo e quanto contiene. Mangerò forse la carne dei tori, berrò forse il sangue dei capri? Offri a Dio un sacrificio di lode e sciogli nell’Altissimo i tuoi voti" — dice Dio a Israele nel salmo 50 (49), 12-14.
In che cosa consiste allora il sacrificio? Non nella distruzione, ma nella trasformazione dell’uomo. Nel fatto che diventa lui stesso conforme a Dio, e diventa conforme a Dio quando diventa amore. "È per questo che il vero sacrificio è qualsiasi opera che ci permette di unirci a Dio in una santa comunità", dice a proposito Agostino. A partire da questa chiave neotestamentaria, Agostino interpreta i sacrifici veterotestamentari come simboli che significano questo sacrificio propriamente detto, e per questo, dice, che il culto doveva essere trasformato, il segno doveva scomparire in favore della realtà: "Tutte le prescrizioni divine della Scrittura concernenti i sacrifici del tabernacolo o del tempio, sono delle figure che si riferiscono all’amore di Dio e del prossimo" (La Città di Dio, X, 5).
Ma Agostino sa anche che l’amore diventa vero solo quando conduce l’uomo a Dio e così lo indirizza verso il suo vero fine; solo qui si può verificare l’unità degli uomini tra loro. Così il concetto di sacrificio rinvia alla comunità e la prima definizione tentata da Agostino si trova, a partire da questo momento, ampliata dal seguente enunciato: "Tutta la comunità umana riscattata, cioè l’unione e la comunità dei santi è offerta a Dio in sacrificio dal Gran Sacerdote che si è offerto lui stesso" (ibid. X, 6). E più semplicemente ancora: "Tale è il sacrificio dei cristiani: la moltitudine, un solo corpo nel Cristo" (ibid. X, 6).
Il "sacrificio" consiste dunque —diciamolo ancora una volta — nella conformazione dell’uomo a Dio nella sua theiosis, direbbero i Padri. Consiste, per esprimersi in termini moderni, nell’abolizione delle differenze, nell’unione tra Dio e l’uomo, tra Dio e la creazione: "Dio tutto in tutti" (1 Cor 15, 28). Ma come ha luogo questo processo che fa sì che diventiamo amore e un solo corpo con il Cristo, che noi diventiamo una sola cosa con Dio, come avviene questa abolizione della differenza? Prima di tutto esiste a questo proposito una netta frontiera tra le religioni fondate sulla fede di Abramo da una parte e dall’altra parte le altre forme di religione come le troviamo in particolare in Asia, ma anche — probabilmente sulla base di tradizioni asiatiche - nel neo-platonismo di impronta plotiniana.
Là l’unione significa liberazione dalla finitezza che si svela infine come apparenza, abolizione dell’io nell’oceano del tutto che, di fronte al nostro mondo di apparenze, e il nulla, tuttavia in verità è il solo vero essere. Nella fede cristiana, che dà compimento alla fede dl Abramo, l’unità è vista in modo completamente diverso: è l’unità dell’amore, nella quale le differenze non sono abolite, ma si trasformano nell’unità superiore degli amanti, quale si trova, come in archetipo, nell’unità trinitaria di Dio. Mentre, per esempio, presso Plotino, il finito è decadenza in rapporto all’unità ed è per così dire il livello del peccato e in quanto tale e al tempo stesso il livello di ogni male, la fede cristiana non vede il finito come una negazione, ma come una creazione, come il frutto di un volere divino, che crea un partner libero, una creatura che non deve essere abolita, ma deve essere compiuta e inserirsi nell’atto libero dell’amore.
La differenza non è abolita, ma diventa la modalità di una superiore unità. Questa filosofia della libertà, che è alla base della fede cristiana e la differenzia dalle religioni asiatiche, include la possibilità della negazione. Il male non è una semplice decadenza dell’essere, ma la conseguenza di una libertà male utilizzata. Il cammino dell’unità, il cammino dell’amore, è perciò un cammino di conversione, un cammino di purificazione, prende la figura della croce, passa attraverso il mistero pasquale, attraverso la morte e la Resurrezione. Ha bisogno di un Mediatore che nella Sua morte e nella Sua Resurrezione diventa per noi la via, ci attira tutti a lui (Gv 12, 32) e ci esaudisce.
Gettiamo un colpo d'occhio addietro. Nella sua definizione: sacrificio eguale amore, Agostino si appoggia con ragione sul termine presente sotto diverse varianti nell’Antico e nel Nuovo Testamento che egli cita secondo Osea: "Voglio l’amore e non il sacrificio" (6, 6; 5. Agostino, La città di Dio, X, 5). Ma questa affermazione non mette semplicemente una opposizione tra ethos e culto — in questo caso il cristianesimo si ridurrebbe a un moralismo —, rinvia a un processo che è più che la morale, a un processo di cui Dio prende l’iniziativa. Lui solo può avviare nell’uomo il cammino verso l’amore.
È solo l’amore con cui Dio ama che fa crescere l’amore verso di Lui. Questo fatto di essere amato avvia un processo di purificazione e di trasformazione, nel quale noi non siamo solo aperti a Dio, ma uniti gli uni agli altri. L’iniziativa di Dio ha un nome: Gesù Cristo — il Dio che si è fatto Lui stesso uomo e si dona a noi. Ecco perché Agostino può sintetizzare tutto questo dicendo "Tale è il sacrificio dei cristiani: la moltitudine è un solo corpo nel Cristo. La Chiesa celebra questo mistero con il sacrificio dell’altare, ben conosciuto dai credenti, perché in questo le è mostrato che nelle cose che essa offre, essa stessa è offerta" (ibid. X, 6). Chi ha compreso questo non sarà del parere che parlare del sacrificio della Messa è perlomeno altamente ambiguo e anche uno spaventoso errore. Al contrario: se non ritroviamo questa verità, perdiamo di vista la grandezza di ciò che Dio ci dona nell’Eucaristia.

5. Il nuovo tempio

Vorrei ora richiamare ancora, in modo molto breve, altre due linee di avvicinamento all’aspetto centrale della questione. A mio avviso, una indicazione importante è data nella scena della purificazione del tempio, in particolare nella forma trasmessa da Giovanni. In realtà Giovanni riferisce una parola di Gesù che nei Sinottici è presente soltanto durante il processo a Gesù sulle labbra di falsi testimoni e in modo deformato. La reazione di Gesù riguardo ai mercanti e ai cambiavalute del tempio era nella pratica un attacco contro le immolazioni di animali che vi erano presentati, dunque un attacco contro la forma esistente del culto del sacrificio in generale.
È questo il motivo per cui le competenti autorità ebraiche gli domandano, con pieno diritto, con quale segno Egli giustifichi una tale azione che equivaleva a un attacco contro la legge di Mosè e le sacre prescrizioni dell’Alleanza. In proposito Gesù risponde: "Distruggete (dissolvete) questo tempio e in tre giorni lo faro risorgere" (Gv 2,19).
Questa sottile formula evoca una visione di cui Giovanni stesso dice che i discepoli non la compresero, se non dopo la Resurrezione, ricordandosi gli eventi, e che ricondusse a credere alle Scritture e alla Parola detta da Gesù (Gv 2, 22). Ora infatti comprendono che al momento della crocifissione di Gesù il tempio è stato abolito: secondo Giovanni, Gesù fu crocifisso esattamente nel momento in cui gli agnelli pasquali venivano immolati nel santuario.
Nel momento in cui il Figlio si consegna in persona come agnello, vale a dire si dona liberamente al Padre e così (pure) a noi, giungono alla fine le antiche prescrizioni del culto, che non potevano essere altro che un segno delle realtà autentiche. Il tempio è distrutto. E ormai il Suo corpo risuscitato — Lui stesso — diventa il vero tempio dell’umanità, nel quale si svolge l’adorazione in Spirito e verità (Gv 4, 23). Ma Spirito e verità non sono concetti filosofici astratti — Lui stesso è la verità, e lo Spirito è lo Spirito Santo che da Lui procede.
In tal modo, anche qui appare con chiarezza che il culto non è sostituito dalla morale, ma che il culto antico giunge alla fine, con le sue sostituzioni e i suoi malintesi, spesso tragici, perché la realtà stessa, il nuovo tempio, si manifesta: il Cristo risuscitato che ci attiva, ci trasforma e ci unisce a Lui. Ed è di nuovo chiaro che l’Eucaristia della Chiesa — per parlare con Agostino — è sacramentum del vero sacrificium — segno sacro nel quale si produce ciò che è significato.

6. Il sacrificio spirituale

Infine vorrei segnalare molto brevemente una terza via secondo la quale è progressivamente diventato più chiaro il passaggio dal culto di sostituzione, quello della immolazione di animali, al vero sacrificio — alla comunione, alla offerta del Cristo. Presso i profeti pre-esilici c’era stata contro il culto del tempio una critica estremamente dura, che Stefano, con stupito terrore dei dottori e dei sacerdoti del tempio, riprese nel suo grande discorso. segnatamente questo versetto di Amos: "Mi avete forse offerto vittime e sacrifici per quarant’anni nel deserto, o casa di Israele? Avete preso con voi la tenda di Moloc e la stella del dio Refan, simulacri che vi siete fabbricati per adorarli" (5,25, At 7,42).
La critica dei profeti fu il presupposto interno che per mise ad Israele di attraversare la prova della distruzione del tempio, dell’epoca senza culto. Allora ci si trovò nella necessità di mettere in luce in modo più profondo e nuovo che cosa è il culto, l’espiazione, il sacrificio. Al tempo della dittatura ellenistica, in cui Israele fu di nuovo senza tempio e senza sacrificio, il libro di Daniele ci ha trasmesso questa preghiera: "Ora, Signore, noi siamo diventati più piccoli dl qualunque altra nazione.., ora non abbiamo più né principe, né capo, né profeta, né olocausto, né oblazione, né incenso, né luogo per presentarti le primizie e trovare misericordia. Potessimo essere accolti con il cuore contrito e con lo spirito umiliato, come olocausti dl montoni e di tori, come migliaia di grassi agnelli. Tale sia oggi il nostro sacrificio davanti a Te e ti sia gradito, perché non c’è delusione per coloro che confidano in te. Ora ti seguiamo con tutto i! cuore, ti temiamo e cerchiamo il Tuo volto" (Dn, 37-41).
Così lentamente maturò la scoperta che la preghiera, la parola, l’uomo che prega e diviene lui stesso parola è il vero sacrificio. A questo proposito la lotta di Israele poté entrare in fecondo contatto con la ricerca del mondo ellenistico: anche esso cercava il ripiego per uscire dal culto di sostituzione delle immolazioni di animali, per arrivare a un culto propriamente detto, alla vera adorazione. In questa prospettiva è maturata l’idea della loghikè tysia — del sacrificio consistente nella parola che noi incontriamo nel Nuovo Testamento in Romani 12,1, dove l’apostolo esorta i credenti ad offrire se stessi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio.
Questo è indicato come loghikè latreia, come servizio divino secondo la parola, ragionevole. Sotto un’altra forma, troviamo la stessa affermazione in Eb 13, 15: "Per mezzo di Lui — il Cristo — offriamo a Dio continuamente un sacrificio di fede, cioè il frutto di labbra che confessano il Suo nome". Numerosi esempi, provenienti dai Padri della Chiesa, mostrano come queste idee furono sviluppate e divennero il punto di congiunzione tra la cristologia, la fede eucaristica e la traduzione pratico-esistenziale del mistero pasquale.
Vorrei solo citare, a titolo di esempio, alcune frasi di Pietro Crisologo, di cui si dovrebbe in verità leggere l’intero Sermone in questione per poter seguire questa sintesi da capo a fondo: "Singolare sacrificio, dove il corpo si offre senza il corpo, il sangue senza il sangue! Vi scongiuro, dice l’Apostolo, per la misericordia di Dio, di offrire i vostri corpi come sacrificio vivente. Fratelli questo sacrificio prende ispirazione dall’esempio di Cristo che immolò il Suo corpo, perché gli uomini abbiano la vita. Diventa, uomo, diventa il sacrificio di Dio e il suo sacerdote. Dio cerca la fede, non la morte. Ha sete della tua promessa, non del tuo sangue. Il fervore lo placa, non l’uccisione".
Anche qui si tratta di tutt’altra cosa che di un puro moralismo, tanto l’uomo vi è impegnato nel suo essere totale: sacrificio consistente nella parola. I pensatori greci avevano già messo questo aspetto in relazione al logos, alla parola stessa, indicando che il sacrificio della preghiera non deve essere un puro discorso, bensì la trasformazione del nostro essere nel logos, l’unione con Lui. Il culto divino implica che noi stessi diventiamo degli esseri della Parola, che ci conformiamo alla Ragione creatrice. Ma è nuovamente chiaro che non possiamo ottenere tutto questo da noi stessi e così tutto sembra di nuovo finire nel nulla, fino al giorno in cui viene il Logos, il vero, il Figlio, fino al giorno in cui sì fa carne e ci attira a se stesso nell’esodo della croce.
Questo vero sacrificio, che ci trasforma tutti in sacrificio, vale a dire ci unisce a Dio, fa di noi degli esseri conformi a Dio, è certamente fissato e fondato in un avvenimento storico, ma non si trova come una cosa del passato dietro di noi; anzi diventa contemporaneo e accessibile a noi nella comunità della Chiesa, che crede e prega, nel suo sacramento: ecco che cosa significa il sacrificio della Messa. L’errore di Lutero si fondava - ne sono convinto — su un falso concetto di storicità, in una errata comprensione dell’unicità ( ephapax). Il sacrificio di Cristo non si trova dietro di noi come una cosa del passato. Raggiunge tutti i tempi ed è presente in noi.
L’Eucaristia non è semplicemente la distribuzione di ciò che viene dal passato, ma più a fondo è la presenza dei mistero pasquale del Cristo che trascende ed unisce i tempi. Se il Canone romano cita Abele, Abramo, Melchisedec, annoverandoli tra coloro che celebrano l’Eucaristia, lo fa nella convinzione che anche in essi, i grandi offerenti, il Cristo attraversava i tempi, oppure meglio che nella loro ricerca essi camminavano incontro al Cristo. La teologia dei Padri, così come la troviamo nel Canone, non nega l’insufficienza dei sacrifici precristiani; però il Canone include, con le figure di Abele e Melchisedec, gli stessi "santi pagani" nel mistero di Cristo.
La conclusione è precisamente che tutto ciò che precedeva è visto nella sua insufficienza come ombra, ma pure che il Cristo attira tutto a sé, che vi è anche nel mondo pagano una preparazione al Vangelo, che anche elementi imperfetti possono condurre al Cristo, qualunque siano le purificazioni di cui hanno bisogno.

7. Il Cristo soggetto della liturgia

Vengo alla conclusione. Teologia della liturgia — questo significa che Dio agisce per mezzo del Cristo nella liturgia e che noi non possiamo agire che per mezzo Suo e con Lui. Da noi stessi non possiamo costruire la nostra via verso Dio. Questa via non è percorribile, eccetto il caso che Dio stesso si faccia la via. E una volta per sempre: le vie dell’uomo che non pervengono accanto a Dio sono delle non-vie.
Teologia della liturgia significa inoltre che nella liturgia il Logos stesso ci parla e non solo parla: viene con il Suo corpo, la Sua anima, la Sua carne, il Suo sangue, la Sua divinità, la Sua umanità per unirci a Lui, per fare di noi "un solo corpo". Nella liturgia cristiana tutta la storia della salvezza, anzi tutta la storia della ricerca umana di Dio, è presente, viene assunta e portata al suo compimento. La liturgia cristiana è una liturgia cosmica —abbraccia la creazione intera che attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio (Rm 8, 19).
Trento non si ingannò, si appoggiò sul solido fondamento della Tradizione della Chiesa. Rimane un criterio affidabile. Ma noi possiamo e dobbiamo comprenderlo in un modo più profondo, attingendo alle ricchezze della testimonianza biblica e della fede della Chiesa di tutti i tempi. Vi sono autentici segni di speranza di questa comprensione rinnovata e approfondita di Trento possa, in particolare tramite la mediazione delle Chiese di Oriente, essere resa accessibile ai cristiani protestanti.
Una cosa dovrebbe essere chiara. La liturgia non deve essere il terreno di sperimentazione per ipotesi teologiche. In questi ultimi decenni, congetture di esperti sono entrate troppo rapidamente nella pratica liturgica, spesso anche passando a lato dell’autorità ecclesiastica, tramite il canale di commissioni che seppero divulgare a livello internazionale il loro consenso del momento e nella pratica seppero trasformarlo in legge liturgica. La liturgia trae la sua grandezza da ciò che essa è e non da ciò che noi ne facciamo.
La nostra partecipazione è certamente necessaria, ma come un mezzo per inserirci umilmente nello spirito della liturgia a per servire Colui che è il vero soggetto della liturgia: Gesù Cristo. La liturgia non è l’espressione della coscienza di una comunità, che del resto è varia e cangiante. Essa è la Rivelazione accolta nella fede e nella preghiera e di conseguenza la sua norma è la fede della Chiesa, nella quale la Rivelazione è accolta. Le forme che si danno alla liturgia possono variare in relazione ai luoghi e ai tempi, così come i riti sono diversi. Essenziale è il legame con la Chiesa che, a sua volta, è vincolata dalla fede nel Signore. L’obbedienza della fede garantisce l’unità della liturgia, oltre la frontiera dei luoghi e dei tempi e così ci lascia sperimentare l’unità della Chiesa, della Chiesa come patria del cuore.
Infine, l’essenza della liturgia è riassunta nella preghiera trasmessa da S. Paolo (1 Cor 16, 22) e dalla Didaché (10, 6): Maranà tha — il Signore viene — vieni o Signore! Nella liturgia si compie già ora la parusia, ma questo avviene protendendoci verso il Signore che viene e precisamente insegnandoci ad invocare "Vieni Signore Gesù". Ed essa ci fa sempre percepire ancora oggi la sua risposta e ce ne fa provare la verità: sì, vengo presto (Ap 22, 1 7-20).
[Conferenza del card. Joseph Ratzinger, Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, in occasione delle Journées Liturgiques de Fontgombault del 22-24 luglio 2001, in Autour de la question liturgique. Avec le Cardinal Ratzinger, Association Petrus a Stella, Abbaye Notre-Dame de Fontgombault 2001, pp. 13-29, trad. it. tratta da Rinascimento Sacro]